Pensavamo che la plastica monouso avesse le ore contate. Poi è arrivata la pandemia, e con essa il ritorno in grande stile della plastica. Dai guanti usa e getta ai contenitori per la consegna di cibo a domicilio, dalle mascherine chirurgiche alle vaschette di frutta e verdura, l’emergenza coronavirus e la paura del contagio sembrano aver relegato in un angolo la spinosa questione delle monumentali quantità di plastica usa e getta che produciamo e non siamo in grado di riciclare. Per non parlare del problema delle microplastiche, che ormai si trovano un po’ ovunque le si vadano a cercare.
Si stima che se in Italia tutti usassimo mascherine chirurgiche monouso, ogni giorno produrremmo (e dovremmo smaltire) circa 120 tonnellate di rifiuti plastici. A questi vanno sommati quelli relativi a camici, grembiuli, tute e cuffie monouso, senza dimenticare occhiali e visiere per proteggere gli occhi. Già, perché questi dispositivi di protezione – chi più e chi meno – contengono materiali plastici. Ed essendo contaminati non possono essere riciclati e devono essere conferiti in discarica o negli inceneritori, quando non vengono gettate per strada da persone poco attente all’ambiente (per usare un eufemismo).
Altro tasto dolente è quello dei guanti monouso. Molte attività commerciali li mettono a disposizione dei clienti, altre non consentono l’ingresso a chi non li indossa. In alcuni luoghi, come in Lombardia, sono obbligatori addirittura sui mezzi pubblici. Così, finiscono per riempire i cestini fuori dai supermercati e per essere disseminati per strada. Eppure, come ha ribadito recentemente l’Oms (ma lo diceva già a marzo) e come sostenevano molti esperti, per il comune cittadino i guanti monouso non sono utili, anzi possono essere dannosi perché possono dare un falso senso di sicurezza. Molto meglio lavarsi le mani spesso o igienizzarle con un gel disinfettante. Secondo l’Istituto superiore di sanità, i guanti monouso dovrebbero essere usati solo dal personale sanitario e dai lavoratori di alcuni settori, come gli addetti alla pulizia, alla ristorazione o quelli che manipolano alimenti.
Ma se il grande ritorno della plastica sotto forma di dispositivi di protezione tutto sommato può essere giustificata (esagerazioni escluse), c’è stato un boom anche nel settore alimentare. Durante il periodo di lockdown, infatti, l’unica attività consentita (e neanche dappertutto) per la ristorazione è stata la consegna a domicilio, poi l’asporto, ed entrambe comportano l’uso di contenitori per alimenti. E quelli più economici e alla portata di chi ha dovuto organizzarsi in fretta e furia spesso sono proprio di plastica (nonostante esistano da tempo alternative).
Non bisogna poi dimenticare frutta e verdura preconfezionate in vaschette e sacchetti di plastica. A onor del vero, questi prodotti già stavano vivendo un periodo positivo: nel 2019 i consumatori avevano speso il 3,2% in più rispetto all’anno precedente per comprare confezioni di frutta e verdura già pronte. Praticità e rapidità erano i motivi che spingevano alla scelta di questi prodotti, a cui oggi, senza dubbio, si va ad aggiungere il maggior senso di sicurezza conferito dall’involucro di plastica per il consumatore e una semplificazione delle operazioni di preparazione delle spese online per il supermercato. Con buona pace del movimento plastic free e dell’ambiente.
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
…”E quelli più economici e alla portata di chi ha dovuto organizzarsi in fretta e furia spesso sono proprio di plastica, nonostante esistano da tempo alternative meno impattanti.” Servirebbe fare qualche esempio corroborato da Specifica LCA. Quello che si dice non è sempre veritiero. La plastica negli imballaggi, risulta essere (nella maggior parte dei casi) dati alla mano, molto più efficiente di altri materiali (si vedano studi quali il TruCost; Denkstatt; e molti altri). per altri dati o info la prego di consultare il sito di Plasticseurope, EUPC, PRE.
Per definizione l’analisi del ciclo di vita (LCA, in inglese Life-Cycle Assessment) è un metodo strutturato e standardizzato a livello internazionale che permette di quantificare i potenziali impatti sull’ambiente e sulla salute umana associati a un bene o servizio, a partire dal rispettivo consumo di risorse e dalle emissioni. Nella sua concezione tradizionale, considera l’intero ciclo di vita del sistema oggetto di analisi a partire dall’acquisizione delle materie prime sino alla gestione al termine della vita utile includendo le fasi di fabbricazione, distribuzione e utilizzo (“dalla culla alla tomba”).
Però la sostenibilità dei prodotti in pratica si basa anche su un antipatico, benchè accettato da molte parti, principio secondo cui alcuni estraggono,inquinano, lavorano e vendono arricchendosi ma trascurando un pò i danni ambientali procurati nelle loro attività che poi o creano zone morte oppure lasciano alle comunità locali sinistrate, spesso in zone legalmente svantaggiate, i costi relativi.
Per essere più chiaro ci sono nel mondo milioni di pozzi “orfani”, zone non ripristinate , migliaia di km di fondali morti per perdite di petrolio, e milioni di km quadrati di ambiente ripuliti alla meglio da altrettante perdite , ambienti che non sono come prima degli incidenti ma li ci pensano le forze della natura e il tempo a ripristinare gratis. E il fracking non fa minori danni…
Se queste situazioni entrassero veramente nel calcolo dei potenziali impatti sull’ambiente e salute scommetto che la plastica costerebbe molto di più e sarebbe meno competitiva……, considerato che questo è solo l’inizio o la culla per stare in argomento , sulla vita e sulla tomba del prodotto c’è molto altro da dire.
Stiamo facendo la battaglia della plastica nel settore SBAGLIATO. In molti casi la plastica serve per allungare la shelf life degli alimenti, cioè non vengono buttati perchè deperiscono alla svelta.
Si cominci da tutti gli articoli che non hanno alcuna necessità di plastica.
Giustissimo. Spesso , sull’onda dell’emotività e senza ragionamenti, si fanno battaglie contro la plastica senza capire fino in fondo che in alcuni senza di essa ci sarebbe uno spreco di cibo almeno 10 volte superiore!
Per quello che riguarda le mascherine e i guanti non c’è assolutamente bisogno di plastica usa e getta , per la vita di verdure e frutta il discorso è molto più complesso e asserire che la plastica è utile in questo campo vuol dire pigrizia e favorire speculazioni e traffici globalmente dannosi.
Le alternative ci sono , basterebbe soltanto un pò di impegno in più, per il bene di tutti.
Io direi piuttosto ritorno al buon senso visto che la plastica, quando riciclata come avviene sempre più spesso dalle nostre parti, ha un impatto minimo.
https://www.terranuova.it/News/Ambiente/Piove-microplastica-su-parchi-e-aree-protette-degli-Stati-Uniti
Sui parchi nazionali e le aree naturalistiche protette dell’Ovest degli Stati Uniti piovono letteralmente più di mille tonnellate di microplastiche all’anno, l’equivalente di 123 milioni di bottiglie. E’ il dato allarmante che emerge da uno studio dell’Università dello Utah.
13 Giugno 2020 pubblicato sulla rivista Science ,
a mio modo di vedere, il problema ambientale e sanitario prodotto dalle plastiche non si affronta e risolve se una nuova coscienza politica e pubblica non si materializzano. i politici dovrebbero finalmente rendersi conto che il solo parlarne lascia le cose come e peggio di prima. la gente, se non è informata e convinta che la diffusione delle plastiche non rappresenta un bene per se’ stessa e per la vita in senso generale, ma un crescente pericolo, non è stimolata a chiedere dei cambiamenti ed attuarli, ove essi fossero gia’ disponibili. ragion per cui, da una parte (la politica) occorre stabilire degli indirizzi e dei forti investimenti, per permettere ai mercati di svoltare verso pratiche sostenibili, con incentivi alla ricerca, alle industrie e una considerevole spinta ai canali mediatici, affinche’ l’informazione pubblica contribuisca a costruire una sensibilita’ collettiva attualizzata sul tema, dall’altra (la gente) si dovrebbe essere capaci di comprendere l’immediatezza dell’importanza capitale della necessita’ di accompagnare questi processi, possibilmente con l’ausilio dei sistemi educativi e formativi gia’ insiti nella societa’… ma so bene che siamo in Italia e parlare ai muri sortisce migliori riscontri…
Il consorzio agricolo di Bologna, di cui non so fornirvi il nome preciso, commercializza i suoi prodotti in contenitori di cartoncino da smaltire nella carta. Purtroppo l’industria della plastica è ancora padrona dei ns destini, detta ancora legge, ne sia la prova il fatto che il governatore dell’Emilia e purtroppo anche Romagna, si arrabbiò di brutto quando si voleva mettere una tassa sulla plastica. Chissà perchè! Quindi volendo si potrebbe sostituire la plastica con altri prodotti (la pizza in quali contenitori vi vienne recapitata a domicilio? I scatole di carta! E allora?), ma l’industria della plastica non vuole e scatena i suoi scagnozzi.