Due giorni fa il sindaco di Vo’, paesino in provincia di Padova, ha detto di non avere nuovi casi di positività al coronavirus. La notizia è importante perché Vo’ e Codogno sono considerati i primi focolai dell’epidemia e sono stati subito isolati tre settimane fa. “Abbiamo applicato la quarantena con grande senso di responsabilità – ha spiegato all’Ansa il primo cittadino – e abbiamo fatto anche due screening a cui ha aderito il 95% della popolazione”.
Facendo bene i calcoli, possiamo ipotizzare qualche analogia con la situazione cinese. A Codogno e a Vo’ l’isolamento è iniziato il 23 febbraio, 48 ore dopo la prima vittima del virus. Dopo circa 21 giorni di isolamento il numero di nuove persone infettate si è azzerato. Analogo discorso per Codogno, Casalpusterlengo e gli altri paesi lombardi classificati come zona rossa dove i casi dopo la quarantena sono drasticamente diminuiti. Al contrario, nelle altre aree della Lombardia si registrano migliaia di casi di persone colpite dal coronavirus e i numeri continuano a crescere.
Il report sul coronavirus in Italia
Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, e Filippo Remuzzi dell’Università di Bergamo hanno pubblicato il 13 marzo sulla rivista scientifica Lancet un report che lascia intravedere l’evoluzione della situazione in Italia. Nel frattempo l’epidemia è stata classificata come pandemia e ha coinvolto oltre 100 paesi in poche settimane. Se in Cina le misure di contenimento hanno ridotto i nuovi casi di oltre il 90%, da noi c’è il rischio che il sistema sanitario nazionale non sia in grado di rispondere in modo efficace alle cure intensive necessarie.
La percentuale di soggetti in terapia intensiva varia dal 9% all’11% delle persone attivamente infettate, e il numero di ammalati cresce in modo esponenziale. “Se la situazione si protrae per un’altra settimana, ci saranno 30.000 pazienti infetti, questo vuol dire che entro la metà di aprile 2020 saranno necessari fino a 4.000 letti d’ospedale in grado di garantire la terapia intensiva. Se l’epidemia italiana avrà un andamento simile a quella della provincia di Hubei in Cina – si legge nel report – il numero di nuovi soggetti infetti potrebbe iniziare a diminuire entro 2-3 giorni, allontanandosi dalla tendenza esponenziale. Tuttavia, al momento non è possibile prevederlo a causa delle differenze di misure di isolamento sociale molto restrittive adottate in Cina e la capacità dei cinesi di costruire rapidamente nuove strutture per i malati”.
Le misure italiane
L’8 marzo 2020, il governo italiano ha messo in atto misure straordinarie per limitare la trasmissione virale, incluso il limitare i movimenti nella regione Lombardia, che intendevano ridurre al minimo la probabilità di fare entrare in contatto persone infette con soggetti non malati. Questa decisione è coraggiosa e importante, ma non è sufficiente.
“In Italia – scrivono Giuseppe e Filippo Remuzzi sul Lancet – abbiamo circa 5.200 posti letto in unità di terapia intensiva. Dall’11 marzo, ci sono 1.028 postazioni dedicate a pazienti con infezione da SARS-CoV-2, e nel prossimo futuro il numero aumenterà progressivamente. Se l’incremento seguirà questo trend per la settimana successiva, ci saranno oltre 30.000 persone infette entro il 15 marzo, come mostrato nella figura 1B [vedi grafico sopra]. Considerando che il numero di letti disponibili nelle unità di terapia intensiva in Italia è vicino a 5.200 e, supponendo che la metà di questi letti possa essere utilizzata per i pazienti colpiti da coronavirus, il sistema sarà alla massima capacità, secondo questa previsione, entro il 14 marzo”(*).
Come evolverà il coronavirus in Italia?
Per capire come evolverà la situazione, il report confronta i dati raccolti nella regione di Hubei in Cina (figura 3), dove la fase iniziale dell’epidemia ha avuto una progressione esponenziale. La curva di crescita ha smesso di essere esponenziale 20 giorni dopo.
“Se l’epidemia italiana segue una tendenza simile a quella in Cina – riporta il report del Lancet – possiamo suggerire che il numero di nuovi pazienti infetti potrebbe iniziare a diminuire entro 3-4 giorni dall’11 marzo. Allo stesso modo la curva cumulativa dei pazienti infetti raggiungerà il picco 30 giorni dopo, con il carico massimo per le strutture cliniche. La previsione più difficile è stabilire il numero massimo di pazienti che richiederanno la terapia intensiva. Partendo dal presupposto che la regione di Hubei in Cina ha una popolazione leggermente più piccola dell’Italia (circa 50 milioni in Hubei e 60 milioni in Italia), abbiamo ipotizzato provvisoriamente che la tendenza per il numero massimo di pazienti attivamente infettati sarebbe simile in i due territori”.
Gli autori ritengono non irrealistico fare analogie tra la situazione italiana e quella dello stato dell’Hubei in Cina. “Sulla base dei dati disponibili – scrivono gli autori – il numero di pazienti infetti in Cina ha raggiunto circa 38.000 alla fine di febbraio 2020, quando nella regione di Hubei il numero di nuovi casi si è quasi azzerato. In Lombardia, possiamo supporre che avremo bisogno di circa 4.000 posti letto in unità di terapia intensiva durante il peggior periodo di infezione, che dovrebbe verificarsi tra circa quattro settimane a partire dall’11 marzo. Ciò è una sfida per l’Italia, dato che ora ci sono poco più di 5.200 letti di terapia intensiva in totale. L’obiettivo ora è aumentare questo numero per soddisfare in sicurezza esigenze future urgenti. Secondo le nostre previsioni, abbiamo solo poche settimane per raggiungere questo obiettivo in termini di approvvigionamento di personale, attrezzature tecniche e materiali”.
(*) Nota:
Il 15 marzo i casi di infezione da coronavirus totali erano 24.747, circa 5 mila in meno rispetto alle previsioni.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Non so che dire,non lo sa nessuno,ho un amica e sono tre settimane che non esce,perché ha avuto una bronchite con febbre,che non scendeva,ripeto tre settimane fa!nessuno gli ha fatto il tampone,siamo lontani dalla Lombardia,ma non significa nulla!
5000 in meno rispetto alle previsioni. Una buona notizia. Speriamo giri anche questa.
non vuole dire ancora niente, potrebbe essere che compaiano con qualche giorno di ritardo; la medicina non è una scienza esatta!
Mi aspetto più civiltá e rispetto da parte di runner, ciclisti e chi esce per una passeggiata. Restare in casa significa non avere contatto con maniglie, pomoli, corrimano. Il virus è invisibile. Uscite con una mascherina e possibilmente guanti in pvc da lavare al rientro. Io disinfetto ogni pulsante e citofono di casa, ed esco solo per visite e terapie. Stiamo a casa!
Gentilissima Lauretta, cerchiamo di limitarci a commentare gli articoli. Le persone che decidono, come permesso dal decreto, di effettuare sport all’aperto non infrangono nessuna legge né attentano alla salute pubblica se si attengono alle modalità suggerite delle autorità. Le numerose denunce di questi giorni sono legate ad altri comportamenti e interessano soprattutto persone anziane e non i runner che adesso sembrano i nemici pubblici numero uno. Lasciamo fare alle forze dell’ordine il loro lavoro e non sostituiamoci a loro.
Gentilissima Valeria, tutti dovrebbero attenersi ai decreti e il buon senso non guasta. Sono molti i motivi correlati ai runner. La carenza inoltre sta portando a misure più drastiche. Non ritengo di aver contravvenuto alle buone regole, compito comunque di chi gentilmente ci ospita. Legga anche gli altri commenti, grazie.
quali sono i motivi correlati ai runner? se si fa secondo normativa. La carenza di cosa?
Possono diffondere il virus come portatori sani. Vietarlo sarebbe l’unico modo, visto che ‘restate a casa’ non viene proprio capito.
se si rispettano le distanze e le altre indicazioni non comporta rischi per sé o per gli altri. Inoltre non stiamo parlando di spazi al chiuso, persone stipate o contaminazione tramite oggetti. Fino ad oggi è una pratica permessa. Lasciamo agli esperti il compito di formulare le leggi e richiamiamo al buon senso anche quando si tratta di rispettare la libertà degli altri. Il rischio come si è già dimostrato in diverse spiacevoli occasioni è una caccia all’untore da parte di altri cittadini…
Se domani dovessero arrivare altre direttive, ci adegueremo.
Esattamente: l’untore c’è, la mentalità irrispettosa anche. Spero in una stretta più limitante. Invito a vedere una ICU per capire.
Qui un articolo molto preciso. https://www.linkiesta.it/it/blog-post/2020/03/19/runner-untori-e-il-bisogno-di-odiare-chi-esce-da-casa/28891/?fbclid=IwAR2q-uXxv-5G9KdmGeTxZmX3yMWoMYyg0PlR2DeMM9gE9DuYTUiclQ4Ri4w
Restano untori. Finalmente arriva l’esercito. E basta, su… “Stai a casa”
Non sono untori, e questa caccia è a dir poco ridicola, oltre che preoccupante e rischia di far perdere di vista le vere criticità di questa situazione. La responsabilità è prima di tutto del governo che ad oggi non ha vietato le attività produttive non essenziali e gli uffici, come le fabbriche, rimangono aperti. . il problema è una carenza delle strutture sanitaria, del personale medico, dei farmacie dei laboratori di analisi. In che modo l’esercito per le strade colmerà questa carenza?
Abbiate pazienza, ma domenica 15 marzo, nel corso della trasmissione serale presentata da Barbara D’ Urso, inquadrato tra Gianluigi Nuzzi di” Quarto Grado” e Mario Giordano, direttore di Rete4, il dott. Walter Ricciardi, consigliere esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nonché consulente del Governo italiano, a precisa domanda di Nuzzi, ha dichiarato che sì il coronavirus permane sull’ asfalto e che, a casa bisogna togliersi le scarpe e lasciarle fuori, come comunque andrebbe sempre fatto, a prescindere dal coronavirus, pure aggiungendo che la stessa cosa bisogna fare con i vestiti indossati, di cui bisogna spogliarsi, al rientro a casa, lasciandoli nell’ingresso di casa, destando evidente preoccupazione soprattutto in Nuzzi. Subito dopo, la D’ Urso, riassumendo il concetto appena espresso, mimando il gesto, dichiarava ” quindi professore farò bene quando, terminata questa trasmissione, al rientro a casa, mi toglierò le scarpe e ripiegherò ben bene la mia tuta con cui saro’ uscita dallo studio per riporla nell’ ingresso di casa ?”, ricevendo conferma dal dott. Ricciardi. Forse occorrerebbe un confronto pubblico tra gli esperti, perché intervistati separatamente finora hanno sempre lasciato dichiarazioni disorientanti. Così come sulla precauzionale distanza di sicurezza interpersonale da osservare, atteso che dal 2 marzo, quindi da due settimane, il prof. Massimo Galli, primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano e il dott. Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, hanno dichiarato che dal punto di vista scientifico, la distanza da osservare per evitare il contagio da droplet, dalle goccioline emesse mentre si parla, non è quella di un metro, bensì quella di un metro e 82 cm ( cfr. interviste 2 marzo su Corriere.it, Corriere Adriatico, La Stampa, Pickline), mentre sul proprio sito la Regione Emilia Romagna considera contatto stretto con un soggetto potenzialmente contagioso quello avvenuto a distanza inferiore a due metri e per più di quindici minuti se all’aperto, e sempre se a distanza inferiore a due metri per una durata di quindici minuti se in ambiente chiuso. Tanto agevolmente verificabile con banale ricerca in rete. Avv. Oreste d’ Adamo Foggia
In questa vicenda ci possono essere delle diversità nelle modalità, ma i concetti di base sono identici e non bisogna misurare le notizie con il centimetro. La contaminazione d’asfalto è un problema minore e la carica infettante eventuale è minima. Non è certo questo il problema.
tutto giusto, purtroppo