La colonizzazione del continente americano ha comportato, nel corso dei secoli a una vera e propria migrazione di piante ed animali verso il Nuovo Mondo comprese le api (Apis Mellifera). I primi alveari furono spediti dall’Inghilterra, nei primi decenni del 1600, verso la Virginia e da quella fatidica data, come la scrittrice Horn riporta nel suo libro “Bees in America”, le api sono state testimoni dell’avanzare della frontiera verso il mitico West, tanto che i nativi d’America le avevano ribattezzate “le mosche dell’uomo bianco”.
L’apicoltore, all’inizio della storia coloniale, era visto nell’immaginario popolare come una figura, quasi mitica, che viveva da eremita ai bordi della società. Secondo le cronache spesso la progettazione di villaggi prevedeva la presenza di alcuni alveari perché ci si era resi conto, in maniera del tutto empirica, che la vicinanza ai frutteti favoriva raccolti più abbondanti.
Da quei giorni ad oggi molte cose sono cambiate nel panorama statunitense. Una delle maggiori crisi si registra negli anni ’80-’90, per l’invasione del miele di origine cinese poco costoso ma di scarsa qualità. Oggi le cifre ufficiali indicano che solo il 20% del miele viene importato dalla Cina anche se molti esperti ritengono il dato sottostimato. Il sospetto è che molte aziende straniere effettuano le cosiddette triangolazioni: il miele cinese viene venduto ad apicoltori canadesi, che poi lo mandano negli Stati Uniti come produzione propria. Il crollo del prezzo del miele ha costretto le maggiori aziende ad abbandonarne la produzione, o a considerarla un’attività secondaria.
In America molte delle coltivazioni destinate alla monocultura dipendono, in parte o totalmente, dalle api che vengono spostate nei terreni dove occorre impollinare i fiori con tutte le arnie. Un esempio è l’impollinazione del mandorlo la cui produzione nel nord California copre l’80% del fabbisogno mondiale.
Nel mese di febbraio durante la fioritura, un milione di alveari (pari alla metà del patrimonio apistico americano) proveniente da ogni dove viene spostato nelle vallate di Sacramento e San Joaquin. Gli apicoltori ricevono per questo servizio pari a 180 $ per ogni alveare. Anche per la coltivazione del melo nello stato di New York arrivano ogni anno 30.000 alveari, mentre per il mirtillo nel Maine ne servono 50.000. Questi spostamenti rappresentano un forte stress per le api alimentate durante la trasferta con sciroppo di mais, visto che una parte delle specie da impollinare non produce nettare a sufficienza per il sostentamento.
Gli agricoltori americani prima dell’impollinazione eliminano con pesticidi la flora selvatica, trasformano il territorio in immense distese con un solo tipo di pianta. In questo modo le api concentrano l’attenzione solo sulle piante coltivate e il raccolto risulta più ricco.
Secondo Marla Spivak, rinomata entomologa americana e recente vincitrice del premio “Genius Grant” da parte della fondazione MacArthur, per il suo impegno nella selezione genetica dell’Apis Mellifera, queste pratiche sono una delle cause che favorisce la cosiddetta ”moria delle api” conosciuta anche con la sigla CCD ovvero Colony Collapse Disorder. Nel nord-America la vistosa moria delle api è iniziata nel 2006 è ha causato perdite annuali variabili dal 30 al 90% degli alverari. Oltre alle pratiche apistiche “stressanti” come l’impollinazione bisogna però considerare l’eccessivo utilizzo di acaricidi e antibiotici nella gestione degli alveari e l’impiego di pesticidi di nuova formulazione, come i neonicotinoidi oltre alla presenza di nuovi parassiti come il coleottero dell’alveare (Aethinia Thumida). Forse un cambiamento da parte degli apicoltori americani con l’adozione di metodiche più sostenibili per l’ambiente e per le api potrebbe favorire la conversione di pratiche agricole molto discusse come l’eccessivo utilizzo della monocultura. D’altra parte la parola “crisi” non è sinonimo di “cambiamento”?
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