La buona notizia è che, nel Regno Unito, il programma nazionale per la riduzione del consumo di sale avviato nel 2003 sta funzionando. Grazie a campagne pubbliche per promuovere la consapevolezza dei consumatori e ad accordi con le industrie alimentari per ridurre il contenuto di sale nei cibi pronti, in circa 10 anni il consumo quotidiano è diminuito del 15%, passando da 9,5 a 8,1 grammi al giorno. Siamo ancora ben al di sopra dei 5 grammi consigliati dall’Organizzazione mondiale della sanità, ma è comunque un buon risultato.
C’è però anche una cattiva notizia, ed è che si registrano significative disuguaglianze sociali nell’apporto quotidiano di sale. Le persone con uno status socioeconomico non proprio brillante ne consumano di più. Questa differenza era già stata osservata in una rilevazione condotta nel 2000/2001. Ora, un’indagine effettuata per il periodo 2008/2011 su oltre 1.000 volontari – uomini e donne tra i 19 e i 64 anni, che per l’occasione hanno compilato per quattro giorni un accurato diario alimentare – conferma il dato. I risultati, pubblicati sul British Medical Journal Open, si riferiscono solamente al sale contenuto nei cibi pronti, tralasciando quello aggiunto a piacere, che nel Regno Unito rappresenta il 15% circa del totale.
Dunque una riduzione complessiva dell’apporto di sodio c’è stata, ma non ha interessato la fascia di popolazione che più ne ha bisogno, perché tende a consumare cibi di qualità peggiore e a mostrare una maggior incidenza di malattie associate anche a cattive abitudini alimentari, come ipertensione e disturbi cardiovascolari. Per rendere le strategie di prevenzione di queste malattie siano efficaci, bisogna fare di più, almeno nel Regno Unito. Occorre colmare questa piccola ma significativa differenza tra persone con profili socioeconomici diversi.
E in Italia? A che punto siamo? «Gli ultimi dati relativi ai consumi di sale si riferiscono al programma del Ministero della Salute “Minisal” e dicono che anche da noi c’è ancora del lavoro da fare» dichiara Laura Rossi, nutrizionista del Cra-Nut (Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione). «Siamo intorno agli 11 grammi al giorno per gli uomini e ai 9 grammi al giorno per le donne, provenienti per il 65% da cibi pronti e per il 35% da sale aggiunto».
I dati disponibili fotografano anche l’esistenza di un gradiente preciso dal punto di vista geografico: «I consumi di sale – precisa l’esperta – sono maggiori al Sud e minori al Centro.
L’indagine non si è concentrata su aspetti socioeconomici, ma si può ipotizzare che anche in Italia ci siano differenze nel consumo di sale analoghe a quelle osservate in Gran Bretagna, visto che anche da noi le persone con meno redito tendono ad avere abitudini alimentari scorrette. Però è solo un’ipotesi».
Resta il fatto che l’impegno a ridurre l’apporto di sale non deve venire meno e il discorso riguarda sia le industrie alimentari sia i panificatori (leggi approfondimento). «Il pane è una delle principali fonti di sale per gli italiani – conferma Rossi – le linee guida per una sana alimentazione italiana sono in corso d’aggiornamento, ma rimane valida l’indicazione già proposta alcuni anni fa: “Sale? Meglio poco“.
Valentina Murelli
© Riproduzione riservata
Foto: iStockphoto.com
Le donazioni si possono fare:
* Con Carta di credito (attraverso PayPal): clicca qui
* Con bonifico bancario: IBAN: IT 77 Q 02008 01622 000110003264 indicando come causale: sostieni Ilfattoalimentare
giornalista scientifica