Boom di casi di sindrome sgombroide a Milano dopo avere mangiato pesce conservato male al ristorante. Come ci si difende dal “mal di sushi”
Boom di casi di sindrome sgombroide a Milano dopo avere mangiato pesce conservato male al ristorante. Come ci si difende dal “mal di sushi”
Giulia Crepaldi 14 Ottobre 2016“Mal di sushi”. Con questo nome esotico a Milano è balzata agli onori della cronaca la sindrome sgombroide, un’intossicazione alimentare dovuta alla cattiva conservazione di alcuni tipi di pesce. L’allarme è scattato nel capoluogo lombardo dove i casi sono in costante aumento. Nel 2015, un anno da record, ne erano state colpite 47 persone, ma il primato è destinato a cadere visto che nei primi nove mesi di quest’anno siamo già arrivati a quota 45 casi. L’aumento sembrerebbe essere collegato alla moda dei sushi bar e dei ristoranti orientali con formula “all you can eat”.
La sindrome sgombroide è causata dall’eccesso di istamina, una sostanza che si forma naturalmente in seguito alla degradazione dell’istidina, un aminoacido particolarmente presente nella carne di alcuni pesci. La lista comprende soprattutto: tonni, sgombri, sardine e acciughe. Evitare di mangiare sushi e sashimi per mettersi al riparo da questa sindrome non è una soluzione. L’istamina è termostabile, cioè resiste al calore, e infatti il problema a volte si presenta per le conserve in scatola di tonno e/o sgombri, ritirate dal mercato perché contengono livelli elevati di questa sostanza.
La formazione dell’istamina è dovuta alla presenza sulla superficie del pesce di alcuni batteri (Escherichia coli, Morganella morganii, Salmonelle, Shigella dysenteriae e Clostridum perfringens), che producono un enzima in grado di trasformare l’istidina in istamina. La modifica avviene a 20/30°C, quindi per bloccare la formazione di istamina è importante lavare il pesce e rispettare rigorosamente la catena del freddo. A questo punto conviene diffidare dei locali che conservano tranci di tonno per il sashimi in vetrine mal refrigerate, per questioni scenografiche.
Nel pescato le concentrazioni di istidina sono pari a circa 1 milligrammo per 100 grammi di muscolo e a questi livelli non ci sono problemi. Gli effetti tossici si scatenano quando si superano i 100 milligrammi ogni 100 grammi. Ci sono poi persone particolarmente sensibili per cui gli effetti dell’istamina si manifestano a concentrazioni molto inferiori (20 milligrammi/100 grammi). I sintomi dell’intossicazione sono arrossamenti, prurito, mal di testa, difficoltà a deglutire, nausea, vomito e diarrea, che si possono attivare dopo pochi minuti oppure entro un paio di ore. In alcuni casi la sindrome sgombroide si risolve senza necessità di terapie entro sei ore dai primi sintomi, anche se nella maggior parte dei casi è necessario ricorrere a farmaci sintomatici e cortisone.
L’insegnamento che emerge dagli spiacevoli fatti di Milano è l’importanza di rispettare la catena del freddo. Quando si compra il pesce, occorre controllare le temperature del frigorifero nei punti vendita e la presenza di un adeguato letto di ghiaccio in pescheria. La stessa cosa nei sushi bar: quando il pesce è esposto in una vetrinetta bisogna capire se è refrigerata. In caso contrario, meglio evitare.
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
buongiorno, mi pare che ci siano notevoli imprecisioni in tutto ciò che è stato divulgato in proposito.
1) il sushi non c’entra: la sindrome sgombroide NON è dovuta al consumo di pesce crudo, ma anche di pesce in scatola (tonno, sgombri) o affumicato, o anche cotto.
2) il consumo di pesce crudo può provocare infestazioni parassitarie se detto pesce non viene trattato come previsto dalla normativa comunitaria (Reg. 853/2004).
3) a mio avviso è opportuno richiamare che – oltre al rispetto della catena del freddo e ai tempi di conservazione – la sindrome sgombroide è legata in buona parte a sensibilità individuale (come una qualsiasi allergia).
Gentile Donato,
per quanto riguarda i suoi appunti all’articolo, il termine “mal di sushi” è stato coniato, a quanto pare, da alcuni infermieri di pronto soccorso che si sono trovati ad assistere dei malcapitati affetti da sindrome sgombroide, o almeno così riporta La Repubblica, i primi a portare all’attenzione mediatica il problema.
Come detto nell’articolo, il problema non è legato esclusivamente al sushi e “Evitare di mangiare sushi e sashimi per mettersi al riparo da questa sindrome non è una soluzione. L’istamina è termostabile, cioè resiste al calore, e infatti il problema a volte si presenta per le conserve in scatola di tonno e/o sgombri, ritirate dal mercato perché contengono livelli elevati di questa sostanza.”
Abbiamo citato anche la questione della sensibilità individuale come può leggere qui “Ci sono poi persone particolarmente sensibili per cui gli effetti dell’istamina si manifestano a concentrazioni molto inferiori (20 milligrammi/100 grammi).”
Il mal di web invece è quello che induce a leggere la prima e l’ultima riga in tutta fretta per non capirci un fico secco ma con la premura di commentare a sproposito. Buona lettura (slow).
La formazione di istamina, come di altre amine biogene ad effetto tossico nell’uomo, è dovuta all’attività degradativa batterica su alcuni aminoacidi e non riguarda solo i prodotti ittici. Queste molecole sono termostabili e possono essere prodotte anche da batteri c.d. psicrotrofi, metabolicamente attivi ed in grado di moltiplicarsi anche a temperatura di refrigerazione, come alcuni naturalmente associati ai prodotti ittici tra cui Vibrio spp. Photobacterium phosphoreum e Morganella psychrotolerans. Inoltre il congelamento breve (abbattimento a -35°C o a -20°C per 18-24 ore)non sortisce effetto battericida sul pesce, pertanto,il rispetto della catena del freddo è condizione necessaria ma non sufficiente a prevenire la formazione di amine biogene. Se quindi un pesce viene abbattuto come richiede la normativa per il consumo a crudo ed anche conservato correttamente in frigorifero prima e dopo questo trattamento, quando i tempi di refrigerazione sono di alcuni giorni, i batteri presenti nelle carni possono produrre le amine biogene. Occorrerebbe stilare precise linee guida per chi commercializza o somministra prodotti ittici destinati al consumo a crudo, sia in relazione alla eviscerazione, sia in relazione ai tempi di conservazione.