Ristorazione scolastica tra sfide e opportunità: il caso di Bologna. I princìpi di una sana alimentazione possono essere trasmessi anche in mensa
Ristorazione scolastica tra sfide e opportunità: il caso di Bologna. I princìpi di una sana alimentazione possono essere trasmessi anche in mensa
Valentina Murelli 13 Gennaio 2017Lo dice anche l’Organizzazione mondiale della sanità: il pasto a scuola è un momento strategico per la trasmissione dei princìpi di una sana alimentazione, per la prevenzione di malattie importanti collegate, a lungo andare, a sovrappeso e obesità. Indirettamente lo confermano i dati di Okkio alla salute, un sistema di sorveglianza su sovrappeso e obesità dei bambini italiani di Ministero della salute e Istituto superiore di sanità. “Il confronto della distribuzione geografica di queste condizioni e delle scuole dotate di mensa parla chiaro”, ha sottolineato Emilia Guberti, direttrice dell’Unità di igiene, alimenti e nutrizione dell’Usl di Bologna in un intervento all’ultimo congresso della Società italiana di igiene e medicina preventiva, lo scorso novembre. “Le regioni con più mense scolastiche sono all’incirca le stesse nelle quali sovrappeso e obesità sono meno frequenti (in particolare, regioni del Nord e del Centro)”. Certo non è questo l’unico aspetto in gioco, ma sembra avere una sua rilevanza.
“Inoltre – aggiunge Guberti – la possibilità di mangiare alla mensa scolastica è uno strumento di equità sociale, perché assicura l’accesso a un pasto adeguato anche a chi ha minori risorse economiche”. Il che, per altro, rende conto della posizione di Usl, comune e autorità scolastiche sulla questione del pasto da casa. “Dal punto di vista igienico non abbiamo posto divieti particolari” spiega Guberti. “A preoccupare di più è il rischio di monotonia, e dunque di inadeguatezza nutrizionale, della dieta. I pasti portati da casa non si potrebbero refrigerare o riscaldare, quindi la scelta sarebbe per forza limitata. In ogni caso, scuole e comune credono molto nella mensa come momento educativo e si sono sempre adoperati per garantire l’accesso a tutti, non incoraggiando alternative individualistiche”.
Certo, per la ristorazione scolastica proporre pasti sani, equilibrati e variegati è una sfida complessa per vari motivi. Un elemento importante da considerare è la monotonia dei gusti dei bambini, spesso abituati a mangiare sempre le stesse cose, poi bisogna considerare la scarsa attenzione di molte famiglie all’educazione alimentare (per alcuni genitori è importante che il bambino mangi, al di là della qualità nutrizionale). L’ultima criticità riguarda lo scontro con tradizioni alimentari locali. In zone caratterizzate da una dieta particolarmente carnivora, per esempio, può essere difficile far passare l’idea che, a scuola, la presenza di carne nei primi o nei secondi dovrebbe essere limitata a un paio di volte alla settimana. “Eppure è una sfida che deve essere affrontata e può essere vinta, puntando su piccoli cambiamenti graduali, in grado nel tempo di portare a grandi risultati”, afferma Guberti. Che ci racconta come da alcuni stia lavorando, in collaborazione con istituzioni, ditte di ristorazione e comitati di genitori, proprio a questo obiettivo.
Per cominciare, va detto che già nel 2009 la Regione Emilia Romagna ha varato delle linee guida per la ristorazione scolastica alle quali Usl e ditte di ristorazione sono chiamate ad attenersi. “Sono indicazioni ispirate al modello di dieta mediterranea e prevedono dunque un aumento delle proposte di verdure, legumi e cereali diversificati e una diminuzione della presenza di carni e salumi, che nella nostra regione erano piuttosto diffusi” afferma Guberti. Nel 2013, una scuola su tre non aveva menu adeguati, oggi sono tutte “in regola”.
Ovviamente non si tratta di cambiamenti massicci e immediati. “Prendiamo i legumi: sappiamo bene quanto siano importanti nell’ambito di un’alimentazione equilibrata, ma non sempre sono bene accolti, né dai bambini né dagli stessi genitori, che preferiscono vedere nel menu la carne. Però poco per volta siamo riusciti a inserire i legumi con maggiore frequenza, fino ad arrivare a 2/3 volte alla settimana, riducendo i salumi. Idem per i vari tipi di cereali alternativi ai classici pasta a riso: abbiamo iniziato introducendo il farro raffinato, qualcuno ha inserito anche la quinoa, ma deve essere un percorso lento, perché non sempre sono graditi, come pure i cereali integrali”.
Che un alimento non sia gradito non è un problema da poco, perché in questo caso il suo destino è finire direttamente nella spazzatura. E anche se non è facile quantificare gli scarti dei pasti scolastici, alcune indagini stimano che nel nostro paese questi ammontino al 20-40% di quanto distribuito. Proprio per capire meglio come vanno le cose sul territorio, l’Usl di Bologna, in collaborazione con l’Università, ha avviato nel 2015 un progetto pilota di monitoraggio dei consumi della mensa e del gradimento delle diverse preparazioni da parte degli alunni di alcune classi (terze e quarte) di due scuole primarie del capoluogo emiliano. I risultati sono stati pubblicati nell’estate 2016 sulla rivista Sistema Salute.
“Cuore del progetto, intitolato Assaggia e osserva, è stato il coinvolgimento diretto dei bambini, chiamati a valutare in modo scientifico i loro pasti, compilando dopo ogni pranzo schede di valutazione molto accurate, ma anche quello dei loro genitori. Che hanno partecipato a riunioni introduttive e alla festa conclusiva del percorso, durante la quale sono stati consegnati ai bambini degli attestati di assaggiatori preparati proprio da un papà”.
L’iniziativa ha coinvolto un centinaio di bambini che per 30 giorni complessivi, in momenti differenti dell’anno (per avere copertura sia del menu invernale sia di quello estivo), si sono calati nei panni di assaggiatori professionisti, valutando in tutto 2069 pasti. I risultati non sono particolarmente sorprendenti, ma offrono alcuni interessanti spunti di riflessione.
A piacere di meno – e ad essere quindi scartati di più – sono stati contorni, pane e frutta, consumati rispettivamente per il 53,8%, il 46,5% e il 50,6%. Insomma, circa metà delle verdure vengono buttate (la frutta non consumata, invece, viene conservata per la merenda del pomeriggio), con differenze sostanziali a seconda delle proposte: se ci sono le patate arrosto se ne mangia più dell’80%, se c’è l’insalata di cavolo e carote meno del 25%. Minori – intorno al 25% – gli scarti per primi e secondi, ma di nuovo con differenze significative. Tra i primi, i più consumati sono stati le lasagne con il ragù (97%) e quello meno consumato la paella con le verdure (43,8%), mentre tra i secondi in prima e ultima posizione si sono classificati rispettivamente pollo arrosto (88%) e pesce alla livornese (58%). Quanto alle ragioni del mancato gradimento, in genere i bambini riferiscono di un “gusto cattivo”, lamentando per le verdure anche il fatto che siano fredde o insipide.
Lo studio ha anche permesso di confrontare i consumi in mensa con l’adeguatezza della prima colazione e dello spuntino di metà mattina (dati raccolti nello stesso periodo con un altro questionario). Verificando che a pranzo si tende a mangiare di meno e peggio proprio quando la prima colazione salta. “In molti casi questo accade per una banale mancanza di tempo” commenta Guberti. “Al mattino siamo tutti di corsa, e se il bambino non ha voglia di mangiare spesso non insistiamo più di tanto, limitandoci a dargli una merenda sostanziosa (a volte troppo…) per metà mattina. Il che significa che all’ora di pranzo il bambino non avrà fame, e tornerà ad abbuffarsi nel pomeriggio”. È un circolo vizioso, che molti studi associano all’aumento di rischio di sovrappeso e obesità (e anche a una riduzione del rendimento scolastico). Ovviamente, al di là di avviare progetti di educazione alimentare la scuola può fare poco per modificare le abitudini dei ragazzini per quanto riguarda la prima colazione, ma può lavorare direttamente sullo spuntino di metà mattina, per esempio inserendo solo della frutta. “Anche questo è un progetto che, insieme a Comune, insegnanti e rappresentanti dei genitori, stiamo portando avanti in alcune scuole – dove appunto la ditta di ristorazione porta frutta per la merenda – e che speriamo di estendere presto ad altri istituti” sottolinea Guberti.
Infine, analizzando i dati i ricercatori si sono accorti che in una delle due scuole esaminate si sprecava sistematicamente più che nell’altra. Eppure si tratta di due scuole dello stesso quartiere, molto vicine tra loro, servite dalla stessa ditta e con menu identici. A fare la differenza sono state le insegnanti: “Abbiamo osservato che nella scuola più ‘virtuosa’ erano più coinvolte nel momento del pranzo, che condividevano con i bambini mangiando le stesse cose, e spiegando anche alcuni aspetti di nutrizione o di storia dell’alimentazione. Nell’altra erano invece più distanti e disinteressate, arrivando addirittura a consumare un menu differenziato, in bianco”. Per Guberti è proprio questo uno dei messaggi fondamentali che emergono dallo studio e, in generale, dal lavoro della sua unità: non basta qualche lezione, anche ben fatta. La vera educazione alimentare la si fa “sul campo”, al momento dei pasti, coinvolgendo il più possibile tutti i partecipanti: bambini, insegnanti e genitori.
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giornalista scientifica
Quando ci si alza la mattina in genere si mangia per abitudine e non per fame, il bambino, che è meno influenzato dinoi adulti da cattive abitudini, si alza e non ha (giustamente fame), allora meglio non forzarlo magari dargli solo una spremuta di arancia e più a scuola al momento della merenda gli si può dare della frutta (che è meglio mangiare a stomaco vuoto, quindi gli snack sono ideali), poi a pranzo mangerà perché comunque la frutta si digerisce in fretta, chiaro che se uno alla merenda gli da un panino poi a pranzo il bambino non mangerà tanto. Io ho sempre fatto così, assecondando le esigenze naturali di mio figlio che ora a 8 anni è normopeso e mangia di tutto dal tofu alla carne alle verdure e alla frutta.