Olio palma: continua la rapina delle terre e la deforestazione per lasciare spazio alle piantagioni. La verità sulla certificazione RSPO
Olio palma: continua la rapina delle terre e la deforestazione per lasciare spazio alle piantagioni. La verità sulla certificazione RSPO
Roberto La Pira 2 Gennaio 2015La petizione congiunta de Il Fatto Alimentare con Great Italian Food Trade per limitare la presenza dell’olio di palma dalla nostra dieta, ha raggiunto 93 mila firme e diverse adesioni da parte di alcune catene di supermercati. Il problema viene dibattuto molto anche a livello internazionale dove le grandi aziende europee che impiegano questa materia prima agitano la bandierina, ‘RSPO’, nel tentativo di addurre la sostenibilità di una minima parte del palma utilizzato nelle industrie alimentari.
Il tentativo risulta alquanto inutile perché si tratta di una quantità minima rispetto ai volumi mondiali commercializzati raggiunti nell’ultimo decennio. Si tratta di livelli tali per cui oggi il palma si è posizionato al primo posto nella classifica dei grassi alimentari. È un business colossale concentrato nelle mani di pochi, a partire dalle lottizzazioni e dalle coltivazioni dei terreni (1). Anche il commercio é appannaggio di una manciata di trader internazionali da cui dipende il movimento di ogni commodity alimentare. I primi a beneficiare dell’utilizzo di questo grasso sono proprio le grandi multinazionali del cibo, classificate da Oxfam come le “dieci sorelle”(2).
Con discreta lungimiranza i protagonisti di questo lucroso business hanno creato l’RSPO, (Roundtable for Sustainable Palm Oil production), un ente che con un’abile operazione di greenwashing, cerca di coprire le ingiustizie e le azioni compiute a danno delle popolazioni locali e dell’ambiente. RSPO negli ultimi mesi ha iniziato a farsi sentire promuovendo la pubblicazioni di articoli a favore del palma, anche su testate importanti come sull’inglese The Guardian.
L’operazione presenta diversi ostacoli perché in realtà la rapina delle terre e della sovranità alimentare continua. L’acquisizione di enormi appezzamenti di terreni come fossero liberi da persone e cose per ampliare le piantagioni avviene di solito attraverso milizie locali che provvedono allo sgombero (i contractors radono al suolo foreste, villaggi e cimiteri, deviano i corsi d’acqua per impiantare mono-colture intensive di palma da olio). Queste situazioni si continuano a registrare in Birmania, nelle Filippine, in Indonesia, come pure in Africa, in Honduras in Perù e in Brasile.
Un altro elemento da considerare è che a dispetto dei numeri un bosco di betulle in Norvegia non può venire equiparato a un eco-sistema tropicale. Per questo motivo, l’approccio ‘demolisco una foresta qui per costruire un nuovo parco lì’ è antitetico al modello naturale di sviluppo a cui ogni persona interessata alla tutela ambientale dovrebbe ispirarsi (difficilmente gli orangotanghi potranno riprodursi tra i fiordi della Norvegia).
I signori di RSPO nei discorsi dimenticano di dire a quanto ammonta la percentuale di palma certificato rispetto alla produzione globale. Solo il 17 % della produzione è certificato RSPO e secondo il Guardian solamente la metà trova un acquirente finale. Tutto ciò succede anche se la domanda del grasso di palma è in aumento, perché trainata dalla produzione di bio-diesel, oltre che di detergenti, prodotti per la casa e cosmetici. Per questo motivo le aree coltivate sono destinate ad aumentare e a causare ulteriori danni, sociali e ambientali. Rispetto a questi problemi il certificato RSPO esprime poco meno di niente.
Per questi motivi la raccolta di firme va avanti e ci aspettiamo altre risposte dalle aziende e dalle catene di supermercati.
Per sottoscrivere la petizione clicca qui
Dario Dongo
Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.