Il colosso elvetico Nestlé è di nuovo sotto accusa, e per più di un motivo. Il sito di giornalismo investigativo svizzero Public Eye, insieme alla no profit International Baby Food Action Network (IBFAN), hanno pubblicato un rapporto in cui dimostrano, test alla mano, che l’azienda vende gli stessi prodotti per l’infanzia con concentrazioni di zucchero (saccarosio o miele) diverse a seconda dei Paesi. Lo elimina quasi nei Paesi più sviluppati, e ne aggiunge quantità molto elevate in quelli meno ricchi. Sui quali, in tutta evidenza, punta, anche con campagne pubblicitarie estremamente aggressive, per crescere nuove generazioni di persone abituate a consumare alimenti dolcissimi: i suoi.
Un’altra indagine dello stesso sito aveva già dimostrato che si era opposta con ogni mezzo ai bollini neri che in Messico segnalano il junk food, mentre agli azionisti che chiedevano di migliorare la qualità delle ricette la risposta è stata un secco no.
Nonostante gli impegni pubblici e le raccomandazioni di tutte le autorità sanitarie, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Nestlé non mostra dunque alcuna intenzione di pensare alla salute dei bambini, soprattutto quando questi nascono in realtà disagiate.
Il rapporto sui cereali
Per capire come fossero realizzati i cereali e i prodotti a base di latte, in particolare quelli a marchio Cerelac e Nido consigliati, rispettivamente, tra i sei mesi e i due anni e dopo il primo anno, venduti in Asia, Africa e America Latina, Public Eye ha acquistato campioni in vari Paesi, e li ha inviati tutti a un laboratorio indipendente belga, che ha svolto le analisi. Le informazioni nutrizionali riportate dalle confezioni, non permettevano di avere un’idea precisa, perché erano spesso incomplete, ed eterogenee, dal momento che in molte zone non esistono leggi stringenti come quelle presenti in Europa, o in Nordamerica.
In base a quanto riscontrato, in Europa né Cerelac né Nido contengono zuccheri aggiunti, ma altrove la situazione è moto diversa. Per esempio, in Senegal e in Sud Africa i Cerelac contengono sei grammi di zucchero per porzione, così come in Tailandia, in Nigeria addirittura 6,8, in Etiopia 5,2, in India 2,7, ma in Svizzera, Germania e Regno Unito zero. In Brasile, dove gli stessi cereali sono venduti come Mucilon, solo due su otto campioni non avevano zucchero, mentre negli altri sei ogni porzione ne conteneva quattro grammi.
In totale, 108 dei 115 prodotti Cerelac venduti in Asia, Africa e Sud America, pari al 94%, contenevano zuccheri aggiunti.
Due Paesi due misure…
Lo stesso si è riscontrato con il latte Nido, che frutta all’azienda più di un miliardo di dollari all’anno. Nelle Filippine non contiene zuccheri aggiunti, ma in Indonesia sì: la linea, venduta come Dacow, è arricchita da almeno due grammi di miele ogni 100 grammi, equivalenti a 0,8 g a porzione. Ancora: in Messico, due delle tre formulazioni non hanno zuccheri aggiunti, ma una terza e contiene 1,7 grammi per porzione. Il Nido +1 Kinder venduto in Sud Africa, Nigeria e Senegal ne ha un grammo per porzione, mentre la versione di Panama ne ha 5,3 g per porzione, quella del Nicaragua 4,7.
In totale, 21 dei 29 prodotti analizzati, pari al 72%, conteneva zuccheri aggiunti.
Da notare che, nella maggior parte dei Paesi, lo zucchero aggiunto non è indicato in etichetta, mentre le pubblicità sono ovunque, dai social agli enormi cartelloni per strada.
La giustificazione di Nestlé
La Nestlé, secondo quanto riferisce il Guardian, si difende spiegando che gli zuccheri e il miele aggiunti rispettano le leggi locali e sono di qualità elevata. Inoltre, aiuterebbero la crescita di bambini che spesso hanno carenze nutrizionali: per questo motivo vi sarebbero le aggiunte. Ma la realtà contraddice questa versione, perché il problema, in molti di questi Paesi, è l’obesità infantile (in Africa i bambini obesi o in sovrappeso sono già il 23%), non la sotto-nutrizione, a causa degli alimenti di bassa qualità a prezzi stracciati che costituiscono spesso le uniche fonti di cibo accessibili. Per questo l’OMS chiede di non aggiungere zuccheri da nessuna parte, e non solo in Europa o in Nordamerica. Sempre secondo l’azienda, nell’ultimo decennio la concentrazione media di zuccheri dei suoi prodotti sarebbe diminuita dell’11%: un dato che stride con quanto si è visto all’ultima assemblea, su cui torneremo tra un attimo.
La campagna contro i bollini neri
Public Eye nel 2022 aveva già raccontato un altro tipo di comportamento poco difendibile da parte di Nestlé: l’opposizione che l’azienda ha cercato di mettere in campo di fronte al varo della legge che ha obbligato a segnalare i prodotti non sani con un bollino nero in Messico e, in generale, a leggi simili in tutto il Centro e Sud America. Il rapporto riportava diverse mail e interventi di lobbying con i quali è stato fatto ogni tentativo per fermare i provvedimenti, nell’indifferenza per la salute dei bambini messicani (e non solo), che da tempo sono ai vertici mondiali dell’obesità.
Non è un caso se, di fronte alla resistenza dei legislatori, l’azienda ha iniziato ad affermare di aver cambiato idea sul Nutri-score, da preferire ai bollini. Il motivo è evidente: alcuni dei suoi prodotti avrebbero ottenuto valutazioni non pessime al Nutri-score, mentre un bollino nero con scritto: troppo zucchero o troppe calorie non lasciava spazio all’immaginazione. Il Nesquik, per esempio, al Nutri-score se la sarebbe cavata con una B.
Il no agli azionisti
Del resto, che Nestlé non abbia alcuna intenzione di migliorare la qualità dei suoi prodotti lo si è visto all’assemblea degli azionisti, di cui ha dato conto Food Navigator, riprendendo il Financial Times. Durante il meeting annuale, svoltosi il 19 aprile, era stato chiesto, da parte della no profit Share Action, di riformularne molti, se non altro per timore che la mancata adesione agli standard internazionali e la preoccupazione crescente per la salute, evidente nei consumatori, finisse con ripercuotersi sui conti. La risposta è stato un no deciso: l’87,8% ha votato contro, l’11% a favore e l’15 si è astenuto. Secondo Nestlé, il cambiamento andrebbe contro gli interessi aziendali. Probabilmente questo è vero, ma incompleto: andrebbe – anzi va, visto l’esito dell’assemblea – anche contro la salute dei bambini, soprattutto di quelli più svantaggiati.
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Giornalista scientifica
Anche i medici di base dovrebbero intervenire, in proposito, prima ancora che siano le mamme a chiederlo.