Ciotolina di polvere di tè matcha, accanto a due ciotole di tè con frusta

Il matcha è diventato un simbolo di trend globale: dai video virali su TikTok ai banconi dei caffè, dalle bellissime bevande verde smeraldo ai dolci instagrammabili, la polvere di tè giapponese è ormai ovunque. Ma sotto la sua allure vibrante, il matcha è diventato anche il simbolo di un consumo che corre più veloce della sua filiera, di una produzione che sotto la superficie nasconde tensioni ambientali e sociali e di un rituale antico e affascinante che sta rischiando di perdere la sua identità millenaria. 

Il boom mondiale del matcha

In Giappone, il matcha è il protagonista di una cerimonia millenaria che esalta la lentezza e la consapevolezza, tutto il contrario della frenesia con cui oggi viene consumato in tutto il mondo e della corsa globale che lo ha trasformato in un simbolo di tendenza legato a un’estetica precisa: minimalista, pulita e verde brillante.

Complici la sempre più emergente cultura del wellness, l’influenza dei social come TikTok con l’hashtag #MatchaTok e il ritorno post-pandemia al turismo in Giappone con 37 milioni di visitatori solo nel 2024, il mercato del matcha sta attraversando un’espansione senza precedenti. Seppur in ritardo rispetto ad altre nazioni, la “matcha mania” si fa sentire anche in Italia. Catene e bar dedicati, come Macha Café a Milano, lo hanno trasformato in un must del lifestyle urbano.

Nel 2025, le esportazioni del tè verde giapponese sono aumentate del 16% in volume e del 25% in valore, trainate in parte anche da giganti del foodservice come Starbucks, con un valore del mercato globale che si stima potrebbe raggiungere i 5,8 miliardi di dollari entro il 2034. Un boom senza eguali che si scontra però con una produzione che arranca a tenere il passo con la domanda e con un Paese che, per motivi agricoli, può raccogliere il tencha, la materia prima del matcha, solo una volta all’anno. 

Dal rituale alla produzione di massa 

Il matcha è un prodotto stagionale che necessita di una particolare meticolosità nella produzione: le piante di tè vengono coltivate specificamente solo all’ombra per trenta giorni prima della raccolta, in modo da aumentare la concentrazione di clorofilla e amminoacidi. Le foglie, chiamate tencha, vengono poi cotte a vapore, essiccate e infine macinate con mulini in pietra fino a ottenere una polvere sottilissima. Il processo della macinazione è estremamente lento: basti pensare che con un mulino tradizionale si impiega circa un’ora per ottenere dai 30 ai 50 grammi di matcha, sufficienti per massimo una ventina di matcha latte, la bevanda a base di matcha più popolare al momento. 

Tazza di matcha latte circondata da ciotola e misurino con polvere di matcha e frustino
Un mulino tradizionale impiega circa un’ora per ottenere 30-50 g di matcha, sufficienti per massimo una ventina di matcha latte

Quando però la domanda mondiale aumenta in maniera esponenziale, anche un rituale antico e lento come questo deve adattarsi. Sono moltissime le piantagioni che oggi hanno introdotto ombreggiamenti artificiali con teli di plastica o reti in materiali sintetici per accelerare la crescita e massimizzare la resa del raccolto. Per soddisfare l’enorme richiesta del mercato globale, altri produttori hanno invece deciso di avviare monocolture intensive in Cina, Corea del Sud e Taiwan, aree decisamente lontane da Uji e Kyoto, le regioni dove il matcha viene invece coltivato tradizionalmente. 

E se il risultato da una parte è senza dubbio un aumento della produzione, l’altro lato della medaglia è purtroppo una sempre maggiore perdita della biodiversità e la trasformazione del matcha in un prodotto industriale: ciò che è più lontano dalla sua origine artigianale e dal suo originale significato culturale. 

Tra CO2 e coltivatori anziani: il prezzo invisibile del matcha 

Dietro l’immagine naturale e zen del matcha si nasconde infatti un processo non solo di produzione, ma anche di trasporto e imballaggio dall’impronta ambientale tutt’altro che trascurabile. L’impatto del trasporto intercontinentale è significativo, soprattutto considerando che, seppur la maggior parte del matcha di alta qualità continui a provenire dal Giappone, questo venga spedito in tutto il mondo di piccole confezioni monoporzione, pratiche per il consumo ma decisamente poco sostenibili per l’ambiente. Secondo alcune stime, una tazza di matcha importato può generare fino a quattro volte le emissioni di CO2 di una tazza di tè nero locale.

Se poi si considera che, al fine di preservare colore e aroma, queste monoporzioni sono realizzate in materiali difficilmente riciclabili come la plastica multistrato o alluminio, il paradosso è evidente: il matcha è un prodotto associato all’idea di benessere che finisce però per generare un impatto ambientale tutt’altro che green. 

Il ruolo del cambiamento climatico

È impossibile non tenere conto anche del cambiamento climatico e della sempre più crescente vulnerabilità della filiera ai suoi effetti. Le variazioni sempre più imprevedibili di temperatura, le piogge irregolari e le ondate di calore finiscono inevitabilmente per alterare la qualità delle foglie e ridurre di conseguenza i raccolti. In regioni chiave per la produzione del tencha come Uji e Kyoto, si è registrata una riduzione dei raccolti senza precedenti a causa di ondate di calore record nel biennio 2024-2025. Per compensare, in un ciclo vizioso, diversi produttori ricorrono a tecniche di ombreggiamento artificiale più energivore o spostano la produzione, aumentando ulteriormente l’impronta ecologica complessiva. 

Le conseguenze non si limitano solo allambiente. Nelle aree più rurali, infatti, la pressione del mercato globale sta mettendo in difficoltà i piccoli coltivatori, spesso custodi delle tecniche artigianali più antiche. I margini ridotti, la concorrenza dei grandi produttori e l’attrazione fornita da lavori urbani più stabili, spingono molti giovani ad abbandonare lagricoltura, con un conseguente invecchiamento della forza lavoro. L’età media dei coltivatori di tè in Giappone supera ormai i sessant’anni, minacciando la continuità culturale di un prodotto che per secoli è stato simbolo di equilibrio, lentezza e connessione con la natura.

Le persone lavorano nei campi di tè giappone asia cina agricoltura coltivare coltivazioni
Le variazioni di temperatura, le piogge irregolari e le ondate di calore finiscono per alterare la qualità delle foglie di tencha e ridurre i raccolti

Sostenibilità e profitto: il dilemma del matcha giapponese 

Di fronte a questa corsa globale, il Giappone cerca un equilibrio tra autenticità e domanda internazionale. Alcune cooperative nelle tradizionali regioni del matcha hanno iniziato a promuovere pratiche più sostenibili, riducendo luso di plastica e introducendo sistemi di ombreggiamento naturale con piante rampicanti. Altri produttori stanno invece puntando su certificazioni biologiche e filiere tracciabili, per distinguere il matcha artigianale da quello industriale. Tuttavia, il costo di questi metodi resta elevato: un matcha biologico di alta qualità può costare fino a dieci volte di più di una polvere generica destinata al mercato estero.

Secondo la Tea Academy Italia, gran parte del matcha venduto oggi in Europa non viene dal Giappone, ma da Cina o Corea, e spesso si tratta semplicemente di tè verde macinato. C’è purtroppo molta disinformazione e confusione sul mercato e i consumatori finiscono per pagare un prezzo premium per prodotti che di matcha hanno solo il nome. 

Prezzi alti per prodotti non sempre autentici

In Italia la forbice di prezzo è ampia: secondo una rilevazione di mercato su diversi canali, nei supermercati e online si possono trovare confezioni da 50-100 grammi tra i 4 e i 30 euro, a seconda dell’origine e della qualità dichiarata. Nei bar, un matcha latte costa in media 6 euro, con punte di 8-10 euro nei locali specializzati. Questa differenza di prezzo non riflette però tanto il valore della materia prima, quanto il costo dell’immagine green e del rituale di tendenza.

Anche in Europa molti prodotti a base di matcha si rivelano tutt’altro che autentici. Come ha denunciato la rivista francese 60 Millions de Consommateurs (ottobre 2025), numerose miscele contengono appena un 2% di vera polvere di matcha, compensata da zuccheri aggiunti. Il rischio di questi processi è che quello autentico diventi un prodotto di nicchia, mentre quello industriale, principalmente dalle origini cinesi, domini i mercati occidentali, con standard di qualità e sostenibilità molto variabili. Il nome matcha diventa così un’etichetta di marketing, più che una garanzia di autenticità

Il vero trend dovrebbe essere la consapevolezza 

Ciò che ci insegna la “matcha mania” è la consapevolezza di un fenomeno in realtà più ampio: la tendenza a trasformare prodotti tradizionali in mode globali, spesso svuotandoli del loro significato tradizionale. Così com’è successo per alimenti come l’avocado o la quinoa, il successo internazionale di un alimento può nascondere costi elevati non solo per l’ambiente ma anche per i produttori locali. 

La soluzione? Non rinunciare al matcha, ma imparare a sceglierlo con maggiore consapevolezza. Sostenere le piccole aziende agricole, privilegiare prodotti certificati e ridurre il consumo impulsivo sono gesti che possono fare la differenza. L’impegno non deve provenire solo dai consumatori ma anche dalle aziende del settore che hanno la responsabilità di comunicare non solo lestetica del prodotto, ma anche la sua storia e il suo impatto ambientale. 

In Italia, dove la cultura del caffè domina ma cresce lentamente anche quella del tè, il matcha rappresenta una sfida interessante: coniugare moda e autenticità, senza dimenticare la sostenibilità. Perché dietro ogni tazza colma di questa bevanda verde brillante non dovrebbe esserci solo la scusa per una fotografia perfetta, ma una filiera e un’identità millenaria rispettate il più possibile.

© Riproduzione riservata Foto: Depositphotos

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Barbara
Barbara
4 Novembre 2025 21:12

Ottimo argomento

Christine
Christine
6 Novembre 2025 14:46

Il problema è che in Italia non essendoci una vera cultura del tè, sono pochissimi i negozi seri che vendono un prodotto di qualità e autentico !!!

elena
elena
16 Novembre 2025 12:58

Posso condividere diverse cose scritte, ma certamente non la frase “una tazza di matcha importato può generare fino a quattro volte le emissioni di CO2 di una tazza di tè nero locale.” se non altro perche’ non esiste tea nero locale. Tutto il tea viene per lo piu’ coltivato in Asia, quello nero principalmente in India, Ceylon e dintorni (Cina e Giappone essendo grandi produttori di tea verde), con nuovi mercati che si sono aperti in Africa. Qualsiasi tea bevuto in Italia e in Europa (come pure tutto il caffe) e’ importato. La questione del packaging non mi sembra molto diversa. Anzi, il giappone confeziona il matcha in scatolette di alluminio da 30-40 grammi, perfettamente riciclabili. Le bustine monoporzione sono effettivamente discutibili ma certamente non peggior delle bustine da tea proposte da tante marche in simpatiche forme piramidali per una migliore infusione .. che sono di puro materiale plastico e che il consumatore ingenuo o pigro butta nell’umido. Almeno la bustina monoporzione di matcha la si butta nel secco o nell’alluminio o nella plastica (e non entro qui nell’argomento di cosa fa l’Europa con la raccolta della plastica), a seconda. La sitauzione mi sembra molto piu grave con le infelici capsule di caffe’.
Detto questo il vero problema mi sembra, da quello che avete scritto, se io mi possa fidare di un prodotto venduto con la dictura “product of Japan” o meno. Questo non lo so, ma temo sia un problema di “legislazione” italiana.

Azul98
29 Novembre 2025 22:22

Io dove lo bevo è amaro, denso,e per rendere più “amabile” il matcha lo chiedo con pò di latte d’avena,senza usare zucchero di nessun tipo.

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