Aumenta il numero di consumatori che acquista prodotti biologici, tanto che l’anno scorso negli ipermercati e supermercati gli acquisti sono lievitati del 20% in valore. Nel caso del latte i volumi acquistati sono però ancora ridotti: il prodotto bio rappresenta circa l’1,5% delle bottiglie vendute nella grande distribuzione, ma è una tipologia in crescita, a differenza di quanto accade per il latte convenzionale, soprattutto fresco.
Per valutare le differenze tra biologico e convenzionale abbiamo messo a confronto il latte bio intero Granarolo con quello fresco di Alta Qualità e con il Più Giorni sempre della stessa marca. Si tratta di tre bottiglie che il consumatore può trovare affiancate nel banco refrigerato, del supermercato. La materia prima è sempre costituita da latte 100% italiano e i valori nutrizionali sono abbastanza simili. Ciò che varia è il prezzo: 1,85 € per il latte bio, rispetto a 1,55 € per quello fresco Alta Qualità e 1,59 per Più Giorni. I prezzi sono stati rilevati in un supermercato in provincia di Torino.
Focalizzando l’attenzione sul prodotto bio, occorre precisare che la nuova linea Granarolo lanciata a settembre ha sostituito Prima Natura Bio. L’azienda ha anche modificato la veste grafica e ampliato la gamma. La nuova linea bio è prodotta con latte 100% italiano proveniente dagli allevamenti della filiera controllata e certificata del Gruppo ritenuta la più ampia del biologico. Per l’occasione è stato creato un sito internet dedicato www.granarolobiologico.it, in cui è possibile trovare informazioni sui prodotti.
Granarolo sottolinea la qualità dei controlli interni che prevedono per il latte biologico due controlli settimanali per ogni singolo allevatore, oltre a non trascurare il benessere degli animali e il tipo di alimentazione ottenuta con mangimi provenienti esclusivamente da coltivazioni che seguono le pratiche dell’agricoltura biologica. Nel sito sono segnalati gli allevamenti di provenienza della materia prima e gli stabilimenti di conferimento, tutti di prossimità.
Chi acquista biologico è disposto a spendere qualcosa in più per via dei costi più alti. La conversione al bio avviene in 2 anni, e necessita di un forte investimento da parte degli allevatori, sia per l’allevamento sia per l’aspetto agricolo che richiede la rotazione delle colture e la produzione di mangimi derivanti da agricoltura bio autoctona di almeno il 70%.
Al di là della materia prima, una differenza riscontrabile tra il latte bio e quello fresco Alta qualità convenzionale è il trattamento termico. Il biologico viene pastorizzato a una temperatura più elevata rispetto a quella del prodotto di Alta Qualità per prolungare l’intervallo di scadenza ESL (Extended shelf life). La stessa cosa avviene per il Più Giorni. Questa scelta è legata a una questione di mercato: il biologico è una nicchia in forte crescita, ma pur sempre una nicchia, per cui la frequenza di acquisto è minore rispetto al prodotto fresco convenzionale. Per evitare il ritiro dagli scaffali di bottiglie prossime alla scadenza, si preferisce alzare la temperatura durante la pastorizzazione e dare al prodotto una durata di 25 giorni circa. Per il latte Più Giorni l’intervallo è di 29 giorni.
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Granarolo a differenza di altri marchi, ha compreso le tendenze di mercato e le sfrutta sapientemente.
Anche se con la linea HD ha anticipato la tendenza dei delattosati spinti con il know-how della vecchia Centrale del Latte di Milano, non ha ancora chiuso il cerchio con l’offerta di delattosati bio.
Se in Italia come in Europa, ci sono un 50% d’intolleranti al lattosio, una bella fetta in crescita costante di questi, preferiscono la qualità bio per il latte nazionale e tutti i derivati.
Per forza i valori esposti nelle tabelle nutrizionali sono abbastanza simili, devono esserlo.
Tutto il latte scremato deve avere una percentuale di grasso inferiore allo 0,5%, il parzialmente scremato deve averne tra l’1,8 e il 2,5%, quello intero deve avere una percentuale minima del 3,5%.
La normativa fissa altri parametri obbligatori (tenore di materia proteica, contenuto massimo in sieroproteine, tenore massimo di germi ai fini dei requisiti igienico-sanitari, tenore in cellule somatiche, eccetera).
Per motivi tecnici e di rispetto della normativa, latti classificati nello stesso modo (intero, parzialmente scremato…), siano convenzionali o biologici, presenteranno sempre valori di calorie, grassi, proteine eccetera assolutamente analoghi, con differenze al massimo di qualche decimale e sempre nell’ambito dei ridotti intervalli fissati dalla legge.
Quello che varia, per la diversa alimentazione e per il maggior benessere del bestiame, sono nutrienti che non si espongono in tabella nutrizionale.
La metanalisi di Palupi et al, 2012, Comparison of nutritional quality between conventional and organic dairy products: a meta-analysis, J Sci Food Agric 2012; 92: 2774–2781 (http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/jsfa.5639/abstract), dopo aver esaminato 29 studi pubblicati dal 2008 al 2011 da strutture di ricerca di Usa, Danimarca, Germania, Grecia, Italia, Olanda Polonia, Svezia, Svizzera, UK e USA ha concluso che il latte biologico e i prodotti da esso derivati presentano livelli significativamente più elevati di numerose sostanze considerate benefiche, quali acido alfa-linolenico (ALA), acidi grassi omega-3, acido linoleico coniugato (CLA), acido eicosapentaenoico (EPA) e acido docosaesaenoico (DHA) e acido vaccinico, oltre a un miglior rapporto tra omega-3 e omega-6.
Si tratta di sostanze che in base al reg.1169/2011 non vanno inserite in tabella nutrizionale, ma che per l’EFSA hanno effetti positivi per la regolazione del livello ematico di colesterolo e trigliceridi, per la funzionalità cardiaca e cerebrale piuttosto che per la pressione sanguigna.
La necessariamente modesta differenza nei macronutienti e quella pur significativa nei micronutrienti non costituiscono la principale motivazione per il consumo di prodotti biologici, che sta, piuttosto, nel maggior benessere animale e nel minor impatto ambientale.
Nell’allevamento biologico vige il divieto di produzione zootecnica senza terra, il sistema si basa in massima parte sul pascolo, al quale gli animali devono avere accesso regolare, nel rispetto delle loro esigenze fisiologiche, etologiche e di sviluppo.
Almeno il 60% della razione (che dev’essere biologica, quindi con l’esclusione di mangimi OGM) deriva da foraggi (è da qui che deriva la maggior ricchezza in CLA).
Gli animali non possono venire legati, ogni vacca ha a disposizione uno spazio coperto di 6 mq (e uno spazio libero scoperto di 4,5 mq, oltre al pascolo); il pavimento della stalla non può essere in grigliato, ma solido e ricoperto da una lettiera di paglia.
La densità totale degli animali è bassa per ridurre al minimo il sovrappascolo, il calpestio e l’erosione del suolo, così come l’inquinamento provocato dalle deiezioni: non si possono detenere più di due vacche per ogni ettaro a disposizione.
È vietato l’uso di medicinali veterinari allopatici di sintesi e di antibiotici per trattamenti preventivi, così come il ricorso a sostanze destinate a stimolare crescita o produzione.
Personalmente ritengo giustificato il 16% di prezzo in più (26 centesimi al litro), non fosse altro per il fatto che – anche se Granarolo riconosce agli allevatori un prezzo più elevato – quello del latte convenzionale è molto basso (e fa chiudere le stalle) e non fosse altro perchè senza la forzatura indotta dai mangimi convenzionali (le frisone son dei veri e propri distributori che danno anche più di 50 litri/giorno), la produzione delle vacche biologiche è inferiore.
È un po’ come per le uova: prima che entrasse in vigore la direttiva europea che vietava gli allevamenti in batteria, le galline ovaiole convezionali erano rinchiuse per l’intero ciclo produttivo in gabbie da 550 cmq (poco meno di un foglio A4 che ha 621 cmq).
Le uova biologiche, deposte da galline allevate libere, con almeno di 4 mq di superficie scoperta ricoperta di vegetazione a disposizione di ciascuna e alimentate senza mais OGM, costavano più di quelle convenzionali, ma un buon numero di consumatori riteneva che il risparmio di pochi centesimi per ogni uovo non giustificasse la complicità con un sistema di allevamento inaccettabile e sceglieva uova biologiche anche se un po’ più care (al punto che le vendite, nel 2015, nei supermercati italiani sono arrivate al 14.6% delle vendite di uova).
Quando si tratta di alimenti, anche il regolamento 1169/2011 ammette che le scelte dei consumatori sono dettate sì da considerazioni sanitarie ed economiche, ma anche ambientali, sociali ed etiche…
Bravissimo spiegazione molto esplicita