Il 23 febbraio la Ong “Grain” ha pubblicato un rapporto che documenta 416 recenti casi di accaparramento delle terre da parte di investitori stranieri, per la produzione di derrate agricole. Su una superficie complessiva di 35 milioni di ettari, in 66 Paesi.

Grain è una piccola organizzazione senza scopo di lucro, con sede a Barcellona, che a livello globale sostiene i contadini e i loro movimenti, per l’affermazione del diritto delle comunità agricole locali a mantenere il controllo sulle filiere produttive e salvaguardare la biodiversità.

Il rapporto di Grain sul land-grabbing raccoglie informazioni su una lista non esaustiva di investimenti fondiari nei Paesi in via di sviluppo. Sono state selezionate le operazioni iniziate dopo il 2006 e non abbandonate, portate avanti da investitori stranieri su vasti appezzamenti di terra e finalizzate alla produzione di derrate agricole per alimenti e biofuel.

Il rapporto conferma di quanto rilevato da Paolo De Castro nel suo ultimo libro La corsa alla terra: l’impennata dell’agri-business su scala planetaria, a seguito delle crisi finanziaria e alimentare del 2008. da cui deriva, secondo Grain, la sottrazione dei mezzi produttivi alle comunità agricole locali.

L’Africa è la prima area dove avvengono queste operazioni, che pure sono condotte in America Latina, Asia ed Europa dell’Est. Non a caso la maggiore concentrazione degli investimenti si riscontra in quei Paesi dove è minore – quando non del tutto assente – la tutela del possesso e della proprietà privata, oltrechè dei diritti umani. Dove gli affari, quando anche loschi, possono almeno apparire conformi ai regimi locali.

Chi sono i responsabili? Dietro molte operazioni si celano investitori diversi dai nomi che figurano. In linea di massima, 298 dei 416 investimenti citati da Grain sono opera di gruppi dell’agribusiness, gli altri di finanziarie, fondi d’investimento e fondi sovrani. Due terzi delle operazioni partono da Europa (Regno Unito e Germania in testa) e Asia (India, Cina), un terzo da Usa, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.

Sono segnalate alcune società italiane, come Green Waves per un’operazione in Benin (250mila ettari, girasole), Fri-El Green Power in Congo-Brazzaville, Etiopia e Nigeria (44mila, 30mila e 11mila ettari rispettivamente, palma da olio), Eni in Congo-Brazzaville e Angola (70mila e 12mila ettari, palma), gruppo finanziario Tempieri in Senegal (20mila ettari, girasole, operazione sospesa a seguito di disordini locali), MedEnergy in Monzambico (10mila ettari, palma).

Si ricorda infine che investitori di diverse nazionalità utilizzano società basate in paradisi fiscali come Gran Bretagna, Singapore e Mauritius.

Dario Dongo

Foto: Photos.com

Per maggiori informazioni:
http://www.grain.org/article/entries/4479-grain-releases-data-set-with-over-400-global-land-grabs

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daniele marcomin
daniele marcomin
30 Luglio 2012 08:47

nel 2050 saremo 9mld di persone da sfamare. L’Africa è il paese con la più elevata percentuale di terra arabile non coltivata. Basta un battito di farfalla ormai per mandare i mercati delle commodity agricole alle stelle – con conseguenze disastrose per le popolazioni che dipendono dalle importazioni, tra cui molti paesi africani. Per rendere arabili le terre "incolte" servono capitali. Guardiamo quello che sta succedendo in questi giorni con mais, grano e soia alle stelle a causa di siccità in america/europa/sud america. Noi europei riusciamo a sostenere questi prezzi, ma cosa sueccederà quest’anno in Africa? quante persone moririranno per la mancanza di materie prime. Allora dico, non guardiamo solo un lato della medaglia, ma anche l’altro. Ben venga che si aumentino le produzioni agricole in africa per renderla più autosufficiente! Ma bisogna che ci siano aziende che investano soldi – livellamento del terreno, concimazione, lavorazioni e sistemi di stoccaggio della merce costano TANTI soldi!