Dopo essere stati rassicurati da autorità, media ed esperti ( intervenuti anche su ilfattoalimentare.it) che l’incidente di Fukushima non poteva essere paragonato a quello di Chernobyl, arriva  la notizia che l’incidente giapponese è stato classificato al settimo grado della scala Ines ,  esattamente come Chernobyl. Ma allora come stanno veramente le cose?
Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Sgorbati, coordinatore dei dipartimenti di Arpa Lombardia e responsabile della rete regionale di rilevamento della radioattività ambientale.

Il fatto che i tecnici della centrale abbiano messo in atto manovre eccezionali, come l’utilizzo di acqua di mare per il raffreddamento, lasciava intendere  che la situazione era molto più grave di quanto  segnalato inizialmente e collocato come livello di pericolosità tra il  4° e 5° della scala Ines dell’Agenzia internazionale per energia atomica, IAEA. Adesso si è  arrivati  al 7° livello di gravità, perché  oltre ai danni   ai singoli reattori che non superano il 5° e  il 6°, si è considerata la somma dei danni provocati ai quattro i reattori e l’effetto  sull’ambiente”.
Giochi di parole o effettiva difficoltà di valutazione? “Le stime sulla quantità di radioattività rilasciata dall’impianto – spiega ancora Sgorbati – sono controverse. L’Organizzazione per il trattato di non proliferazione Ctbto  già alla fine di marzo aveva stimato che il rilascio di radioattività potesse essere dello stesso ordine di grandezza di Chernobyl”. Questo però non vuol dire che le rassicurazione ricevute dalla popolazione, locale e mondiale, siano state false. 

“La quantità di radioattività rilasciata non è direttamente legata a conseguenze sull’ambiente e le persone. Quanto è stato rilasciato in atmosfera è stato trasportato dai venti sull’Oceano Pacifico e non ha gravato sul territorio giapponese, a differenza di quanto successe a Chernobyl. Voglio dire: utilizzare paragoni e stereotipi per fare confronti è sempre pericoloso e fuorviante”.
“Il medesimo livello di gravità tra Fukushima e Chernobyl, non pone sullo stesso piano i due incidenti. In  Russia si è creato un vasto incendio causato dalla grafite presente nel reattore – ribadisce Sgorbati – e  a causa dell’altissima temperatura, la  colonna di fumi arrivò a 3-5000 metri di altezza. Questo significa che enormi quantità di sostanze radioattive furono trasportate dai venti  molto lontano. Inoltre l’esplosione, dovuta alla liberazione di idrogeno, fu immediata e prorompente.

A Fukushima invece l’idrogeno si è prodotto gradualmente e ha provocato piccole esplosioni che hanno liberato fumi negli strati più bassi dell’atmosfera (praticamente freddi se paragonati a quelli di Chernobyl). Senza la spinta della temperatura, le sostanze radioattive non vanno subito in alta quota e quindi si creano ricadute su zone molto più ristrette”.

D’altra parte, con il trascorrere dei giorni la possibilità di un’esplosione si riduce, anche se la situazione non appare ancora sotto controllo visto che per limitare i danni si ricorre a manovre provvisorie come lo svuotamento in mare  di acqua radioattiva contaminata).
Nei prossimi mesi si dovranno chiarire  diversi aspetti. Per esempio come mai  negli Stati Uniti e in Europa sono stati registrati livelli di radioattività maggiori rispetto a quelli previsti, anche se  si tratta di radioattività  inferiore se confrontata a quella di Chernobyl e comunque assolutamente al di sotto della soglia di attenzione sanitaria.

“In Lombardia – rassicura Sgorbati – abbiamo rilevato livelli di iodio 131 tra 10 mila e 1000 becquerel per metro cubo. Sono valori al limite della sensibilità della strumentazione e di nessun significato dal punto di vista del rischio della contaminazione dell’ambiente e degli alimenti. Attualmente siamo tornati a non rilevare, nelle misure quotidiane, valori misurabili di iodio 131”.
Stefania Cecchetti


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