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Durante l’aviaria la comunicazione alimentare ha fallito: le vendite di pollame sono calate del 20,2%, senza reale pericolo

Ricordate la pandemia di influenza aviaria del 2004/2006? Via via che giornali e tv annunciavano l’avanzata del virus H5N1 in uccelli selvatici e polli allevati in Vietnam e in Europa, passando per l’Asia e il Medio Oriente, cresceva nei consumatori di tutto il mondo la diffidenza verso la carne di pollo. Solo in Italia, secondo quanto calcolato da un’indagine del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, le vendite di pollame fresco sono calate nel biennio 2004-2006 del 20,2%, rispetto ad anni precedenti e un’analoga diminuzione si è registrata per i prodotti congelati. Il tutto senza una reale giustificazione visto che, come hanno continuato a ripetere gli esperti di sicurezza sanitaria, nei nostri allevamenti non è stato registrato alcun caso e il pollame in commercio era assolutamente sicuro.

 

Qualcosa, in questa crisi, non ha funzionato nella trasmissione delle informazioni dalle autorità ai cittadini. Del resto, per realizzare una comunicazione in ambito alimentare davvero efficace, bisogna conoscere cosa succede nella testa dei consumatori quando devono scegliere i prodotti. Un compito da neuroscienziati, insomma, che rientra tra gli obiettivi  del progetto di ricerca italiano FoodCast.

 

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Esistono delle differenze su come il cervello elabora cibi naturali (pollo fresco) e trasformati (crocchette)

«Alcune informazioni sono già note» spiega la neuroscienziata Raffaella Rumiati della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste, alla guida per FoodCast di questo filone di ricerca. «Per esempio sappiamo che la percezione del cibo è un fatto multisensoriale, cioè richiede l’elaborazione di stimoli di diversa natura: tattili, visivi, olfattivi ecc. O, ancora, sappiamo quali sono le aree cerebrali coinvolte nella percezione di diversi aspetti degli alimenti, ma non basta: c’è ancora molto da chiarire. Soprattutto – insiste Rumiati – per quanto riguarda il modo in cui il nostro cervello elabora informazioni relative a cibi “naturali” e pronti (una mela, un peperone) e a cibi trasformati (un piatto di lasagne)». Sembra infatti che ci siano delle differenze significative, come mostra proprio quanto accaduto durante l’epidemia di aviaria: se da un lato in tutto il mondo è diminuito il consumo di carne di pollo, dall’altro va detto che per prodotti già trasformati (come le crocchette) questa diminuzione è stata meno sensibile.

 

Si tratta di capire meglio attraverso quale meccanismo il consumatore percepisce se un cibo è naturale oppure trasformato e qual è il valore che viene attribuito gli alimenti di queste categorie. Il primo passo per riuscirci è disporre di strumenti adatti per fare ricerca ed è proprio in questo ambito che troviamo il primo risultato importante della “linea neuroscienze” di FoodCast. Si tratta di FRIDa (Foodcast Research Image Databse), un ricco database di immagini da utilizzare come stimoli visivi per indagini neuroscientifiche e al quale possono attingere gratuitamente ricercatori di tutto il mondo. Per il momento, l’accesso è stato richiesto da oltre 80 enti pubblici e aziende private.

 

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FRIDa contiene 877 immagini di diverse categorie, utilizzate come stimoli visivi per indagini neuroscientifiche

FRIDa contiene 877 immagini di diverse categorie: cibi naturali (fragole, arachidi), trasformati (baci di dama, patatine fritte) e in decomposizione (banane marce), oggetti naturali non commestibili (foglie), oggetti artificiali collegati al cibo (tazza da tè, rotella per pizza), oggetti artificiali (chitarra), animali e scene (un teatro, un aeroporto). Sono tutte immagini a colori, posizionate su fondo bianco, con la stessa risoluzione (530×530 pixel) e corredate da una serie di informazioni tecniche (per esempio la luminosità) o relative al contenuto dell’immagine stessa. Per esempio, nel caso del cibo, il contenuto calorico reale e la dimensione della porzione.

 

Le immagini sono state mostrate a un campione di 73 giovani volontari, ai quali è stato chiesto di valutare diversi aspetti come: la piacevolezza, il coinvolgimento emotivo, la familiarità, la tipicità rispetto a quanto rappresentato, un’eventuale ambiguità e infine il contenuto calorico e il livello di trasformazione percepiti. Questo per caratterizzare il database nel modo più accurato possibile, facilitando così agli studiosi interessati la ricerca di particolari sottocategorie di immagini.

 

Ma non è tutto, dall’analisi delle valutazioni espresse dai volontari sono emerse anche alcune osservazioni interessanti sulle basi biologiche correlate alle scelte alimentari. «Per esempio – racconta Rumiati- ci siamo accorti di essere abbastanza bravi a riconoscere il contenuto calorico di un cibo, soprattutto se questo è naturale. Probabilmente, perché ci sono alle spalle migliaia di anni di esperienza. Abbiamo inoltre verificato che i cibi di colore rosso risultano più attraenti di quelli con qualche componente verde. Un piatto di pasta al ragù – continua  Rumiati- risulta più attraente di un piatto di pasta al pesto». Anche questo sembra un retaggio evolutivo: il rosso è in genere associato a frutti e ortaggi maturi e dolci, mentre il verde è tipico di alimenti acerbi e aspri. Il lavoro, comunque, è soltanto all’inizio.

 

Valentina Murelli

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