Scaffale di un negozio etnico o supermercato cinese

Ci sono buoni elementi per pensare che in Cina la comunicazione sul rischio alimentare sta superando  l’impenetrabile muraglia della censura. Forse tutto ciò sta accadendo perché il governo da solo non ce la fa. O perché i casi di allerta alimentare sono in continuo aumento. O, ancora, perché si temono le reazioni di un’opinione pubblica allarmata che cerca  sempre di più informazioni attraverso la Rete. La svolta è importante perché forse si stanno superando le barriere e gli ostacoli creati dalle autorità politiche.

Limitatamente a questi argomenti, il governo centrale sembra ormai consentire che i grandi mezzi di comunicazione diano informazioni alla popolazione e, talvolta, siano i primi a denunciare casi eclatanti, contribuendo a migliorare i controlli. A un’unica condizione: che tutto sia impostato in modo tale da far risultare gli episodi come singoli incidenti e non come prove di un fallimento di sistema.

Il punto di svolta per la Cina è il latte alla melammina

Secondo gli osservatori occidentali presenti nel paese, tra i quali il capo della sezione cinese della Food and Drug Administration Christopher Hickey, il cambiamento è palpabile e anche se «non si tratta di libertà di stampa secondo i canoni occidentali, gli spazi di libertà in questo ambito stanno sensibilmente aumentando». Il punto di svolta, secondo lo stesso Hickey, è il 2008, con sei bambini morti e migliaia  intossicati per il latte alla melammina, che ha funzionato «come una triste sveglia tanto per il governo quanto per la popolazione».

Dopo lo scandalo internazionale, infatti, il governo ha dato vita alla Commissione per la sicurezza alimentare che, a sua volta, ha emanato una serie tanto ampia quanto eterogenea e poco organica di normative sui controlli da effettuare, sugli standard (per lo più antiquati) di riferimento, sulle categorie di prodotti da controllare o da vietare.

In questi anni, tuttavia, gli ispettori non sono riusciti a incidere realmente sulla situazione: non erano in alcun modo incentivati a farlo, avevano parametri di riferimento farraginosi  e dovevano farli rispettare in un territorio immenso, dove ci sono aziende  piccole e piccolissime che producono sostanze chimiche per la catena alimentare che sfuggono a ogni verifica.

Come rimediare ai fallimenti?

Ora si sta cercando di porre rimedio al fallimento, almeno a Pechino e Shangai, con l’introduzione, nella valutazione dello stato di servizio degli ufficiali pubblici delle due megalopoli, della vigilanza sugli alimenti. E si sta implicitamente chiedendo aiuto ai media che, per ammissione dello stesso governo, possono avere una funzione di watchdog.

In realtà quest’ultima è più che altro una presa d’atto, se è vero che i casi più recenti sono stati denunciati prima da giornali e televisioni che dalle fonti ufficiali.

Gli altri scandali che scuotono la Cina

Impressionante l’elenco: a marzo la China Central Television (CCTV) ha svelato il caso della carne dei maiali di Shuanghui, il più grande produttore nazionale di carne, contaminata da clenbuterolo, un broncodilatatore vietato che aumenta la quantità di massa muscolare a scapito di quella grassa. Dopo il lnacio della notizia le azioni della società hanno perso il 10 %, il governo ha ordinato ispezioni sugli allevamenti di tutto il territorio nazionale e arrestato 95 persone per fabbricazione, detenzione, utilizzo e cessione illegale del farmaco.

Un mese dopo, sempre la CCTV ha denunciato Shenglu, una fabbrica di Shangai nella quale venivano prodotti panini con pane scaduto sottoposto a colorazione e aggiunta di dolcificante e poi riconfezionato. Risultato: fabbrica chiusa, manager in carcere e ispezioni a tappeto in tutta la zona.

Nelle stesse settimane, poi, giornali e media locali hanno svelato il caso dei porri pieni di pesticidi a Qingdao e quello dei germogli di fagioli farciti di fertilizzanti e coloranti per farli apparire più freschi nella provincia di Liaoning.

Nel frattempo Caixin Media, uno dei gruppi di comunicazione più aggressivi e coraggiosi, ha raccontato la storia del riso al cadmio, confermata poi dalla facoltà di agricoltura di Nanjing, che ha ammesso che il riso contaminato è diffuso ovunque e rappresenta il 10% dell’intero prodotto nazionale.

La situazione, dunque, è in movimento. E la lunga e accidentata marcia verso la democrazia, in Cina, passa anche attraverso la comunicazione del rischio alimentare.

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