Nel mondo, l’espansione delle terre destinate alla coltivazione non si ferma, anche se i cambiamenti climatici, sempre più evidenti e devastanti, sconsiglierebbero di continuare a eliminare biodiversità, a spargere fertilizzanti e fitofarmaci e ad abbattere foreste per fare spazio ai campi. Eppure, se solo si tornasse a coltivare o a riforestare l’enorme quantità di terra un tempo coltivata e poi abbandonata per i più vari motivi (tra i quali guerre, cambiamenti climatici e urbanizzazione), si potrebbero ottenere sia una parte non irrilevante della produzione di cibo necessaria a una popolazione in aumento che una porzione altrettanto importante di nuove foreste, per mitigare la concentrazione di gas serra.
Il richiamo a sostenere il ripristino dei terreni abbandonati arriva da uno studio pubblicato su Nature Communications dai ricercatori del Centre for Nature-based Climate Solutions della National University of Singapore, che hanno effettuato un’articolata serie di stime e calcoli, per dimostrare con i numeri quanto converrebbe a tutti, invece di espandere le coltivazioni, recuperare i campi abbandonati.
Campi abbandonati: la dimensione del fenomeno
Innanzitutto i numeri: tra il 1992 e il 2020, nel mondo sono stati abbandonati 101 milioni di ettari di terre coltivate, con una media di 3,6 milioni all’anno. Se si guardano le piantine elaborate in base ai dati della Fao contenute nel lavoro, si nota che l’Europa, quanto ad abbandono delle terre, è una delle zone peggiori, anche se i Paesi in cima alla classifica sono la Russia, con 12,4 milioni di ettari, la Cina, con 8,7 milioni, e il Brasile, paradossalmente tra i Paesi che deforestano maggiormente, con 8,4 milioni. Ma di tutti questi terreni, più della metà, e cioè 61 milioni di ettari, potrebbe essere nuovamente coltivato. Se si ripiantassero i 15 principali cereali, i raccolti di quei campi potrebbero nutrire tra i 292 e i 476 milioni di persone ogni anno, producendo 363 petacalorie (cioè 363 per 10 elevato alla quindicesima potenza) ogni anno.
Ma i terreni oggi incolti potrebbero anche rispondere alla necessità urgente di riforestare: a questo scopo, potrebbero essere destinati 83 milioni di ettari e, se così fosse, ogni anno si potrebbero catturare dall’atmosfera 1.080 milioni di tonnellate di CO2, quasi equivalenti alle emissioni del Giappone e pari al 2-7% della CO2 globale da eliminare per contenere il riscaldamento globale entro i 2 °C. Inoltre, ciò, potrebbe permettere di raggiungere il 17% degli obiettivi di riduzione delle emissioni di 120 Paesi (con grandi variazioni: per gli Stati Uniti rappresenterebbero lo 0,4% del totale della CO2 in eccesso, ma per l’Etiopia il 49%).
Agricoltura o riforestazione: come scegliere?
Entrambe le destinazioni sarebbero quindi importanti e giustificate, ma come decidere quale terreno destinare all’agricoltura e quale alla rigenerazione delle foreste? Per aiutare i decisori, i ricercatori hanno ipotizzato due scenari estremi. Nel primo, la priorità sarebbe attribuita alle coltivazioni, cui andrebbero 61 milioni di ettari, lasciandone 33 alla riforestazione; nel secondo, a priorità opposte, i valori sarebbero, rispettivamente, 11 e 83 milioni di ettari. In questi due scenari, la produzione di calorie oscillerebbe tra 29 e 363 petacalorie all’anno, mentre l’assorbimento di CO2 tra 290 e 1.066 milioni di tonnellate all’anno.
Tuttavia queste simulazioni non tengono conto del fatto che non tutte le terre, nella realtà, si possono destinare a uno scopo, per quanto possibile; per esempio, in diverse zone dell’Africa centrale, anche se sarebbe possibile coltivare, sarebbe molto più efficiente riforestare. Così gli autori hanno fatto ulteriori valutazioni, destinando ogni ettaro a ciò che, in una data situazione geopolitica e ambientale, è meglio. In queste condizioni, le terre abbandonate potrebbero fornire fino al 79% del cibo e fino al 72% dell’assorbimento di CO2 teoricamente ottenibili.
Come ottimizzare lo sfruttamento dei campi abbandonati?
Sarebbe poi opportuno migliorare le tecnologie e ottimizzare lo sfruttamento, per esempio introducendo l’irrigazione dove ci si è affidati solo all’acqua piovana: in questo modo, la resa potrebbe aumentare del 62%. Inoltre sarebbe possibile migliorare del 40% le rese migliorando la gestione delle coltivazioni e, contestualmente, ridurre lo spreco del 17-34%. Se si facesse tutto ciò, scrivono ancora gli autori, le 363 petacalorie potrebbero rapidamente raddoppiare, fino a diventare 791 oppure, lasciando come limite le 363 petacalorie, potrebbero essere destinati a riforestazione ulteriori 27 milioni di ettari. Infine, ripristinare i terreni abbandonati comporterebbe pulirli dalle biomasse abbandonate nel tempo, destinandole alla produzione di biocarburanti: un’azione che, ulteriormente, avrebbe effetti positivi.
In definitiva, lo studio dimostra che le terre incolte hanno potenzialità notevoli e potrebbero dare una grossa mano da diversi punti di vista, se la loro gestione fosse basata su un approccio scientifico, che tenga conto delle singole realtà e del ruolo nel contesto globale.
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Giornalista scientifica
Forestazione e produzione alimentare non sono necessariamente in contrasto, si può parlare di agroforestazione o food forest, cioè agroecosistemi in grado di fornire sia cibo che legname e servizi ambientali. Questo tipo di gestione agricola è incentivata persino in Europa dall’ultima revisione della politica agricola comunitaria. Inoltre va ricordato che la denutrizione di milioni di persone nel mondo finora non è dovuta principalmente alla scarsità di cibo prodotto, ma a fattori sociali, cioè al fatto che i poveri non hanno soldi per comprarsi il cibo, mentre le eccedenze produttive vengono destinate ad usi non alimentari per mantenere i prezzi ad un livello accettabile per le filiere di produzione, altrimenti l’eccesso di offerta farebbe crollare i prezzi. A questo va aggiunto che enormi superfici coltivate sono destinate a colture che potrebbero essere definite “voluttuarie” se volessimo realmente puntare a fornire calorie e proteine alla popolazione mondiale: tè, caffè, vigneti e cereali destinati all’ottenimento di bevande alcoliche potrebbero lasciare spazio ad alimenti di prima necessità (cereali, frutta, ortaggi e legumi destinati all’alimentazione umana), se si volesse davvero sfamare la popolazione e non fornire generi di lusso a qualche super ricco, come le bottiglie di vino da centinaia di euro. Se non si correggono i fattori sociali che hanno portato all’abbandono delle terre, e all’impossibilità di una parte della popolazione mondiale di accedere alle risorse alimentari che pure abbondano per fattori economici, resta velleitario ipotizzare la riconversione delle terre abbandonate alla coltivazione. I prodotti ottenuti rimarrebbero sempre a disposizione di una minoranza di ricchi, senza risolvere il problema della fame. Lo stesso vale per la destinazione ambientale: gli enormi investimenti e lavori necessari per riforestare grandi superfici da chi sarebbero finanziati e gestiti? Magari dalle stesse multinazionali che già controllano le risorse alimentari mondiali, che così potrebbero ulteriormente speculare su certificati verdi e crediti di carbonio piantando foreste da una parte, per mantenere in piedi le attività inquinanti dall’altra? Saluti a tutti