Una ricerca appena pubblicata su Food Quality and Preference mostra che per valutare in modo attendibile il gradimento dei consumatori verso un alimento o una bevanda è necessario che abbiano modo di provarlo più volte. In pratica, non basta un solo assaggio per stabilire se un certo sapore piace oppure no.
Lo studio, al quale hanno partecipato 128 persone per 14 giorni, mirava a verificare la ricetta di maggior successo di un energy drink, modificando l’acidificante (nelle quantità o sostituendo per esempio l’acido citrico con malico, tartarico, fumarico e fruttarico).
Secondo gli autori, guidati da Henriette de Kock del dipartimento di Scienze degli alimenti all‘Università di Pretoria, Sud Africa, è possibile che piccole differenze nel sapore divengano più evidenti dopo ripetuti assaggi, e quindi modifichino il gradimento nel tempo. I partecipanti al test, infatti, all’inizio hanno preferito formule che col passare dei giorni sono scese agli ultimi posti. E viceversa.
Il risultato è ovviamente interessante per le aziende alimentari che spesso hanno necessità di cambiareleggermente la formula di un prodotto molto conosciuto e devono cercare di non deludere i consumatori. Ma il fatto che “ripetute esposizioni” – così come sono definite nel titolo della ricerca – a un alimento possano renderlo più “simpatico” al palato di quanto non appaia la prima volta, ha un risvolto utile anche per i genitori alle prese con bambini dai gusti difficili.
Nel 2008, la ricerca “Variety is the spice of life: strategies for promoting fruit and vegetable acceptance during infancy” del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia, ha descritto il risultato di due studi sperimentali nei quali 74 bambini fra i 4 e i 9 mesi di età, divisi in due gruppi, per 8 giorni hanno mangiato frutta e verdura in diverse proporzioni.
Risultato: il gruppo che ha consumato molta frutta variata ha aumentato il proprio gradimento per la frutta ma non per le verdure, e viceversa nel gruppo che aveva mangiato più ortaggi, in particolare fagiolini, carote e spinaci. Questo significa che i bambini già dal divezzamento riconoscono i sapori, e che ripetute opportunità di familiarizzare con frutta e verdura porta a un loro maggior consumo nei periodi successivi della vita.
Commenta Alessandro Pinto, nutrizionista dell’Unità di ricerca di alimentazione e nutrizione umana della Sapienza di Roma: «Al divezzamento, è consigliabile riproporre almeno 10 volte un cibo nuovo, in contesti diversi, con differenti preparazioni e senza avere fretta. Invece, in media i genitori si limitano al massimo a 3 tentativi, e poi si arrendono: ma non bastano perché si formi nel bambino una reazione stabile di preferenza o disgusto.
D’altra parte – continua il nutrizionista – se il piccolo qualche volta rifiuta di finire tutta la pappa, non bisogna farsi prendere dall’ansia e insistere, perché questo gli impedisce di riconoscere in modo autonomo il senso di fame e sazietà. L’alimentazione “forzata” porta a un atteggiamento passivo verso il cibo: il bambino, invece, ha il diritto di riconoscere gli stimoli e di imparare a scegliere».
Per quanto riguarda il momento giusto per cominciare l’alimentazione complementare, «È meglio non introdurre alimenti diversi dal latte prima del 5°-6° mese perché prima il bebè non è in grado di compiere i movimenti masticatori e il suo apparato gastrointestinale non è ancora maturo per assimilare i cibii. In più, uno studio del Children’s Hospital di Boston, pubblicato sulla rivista Pediatrics di febbraio 2011, ha confermato che rispettare il periodo dei 4 ai 6 mesi di età per lo svezzamento può ridurre il rischio di obesità infantile», avverte Pinto.
La ricerca, su 850 bambini di tre anni, ha mostrato che 1 piccolo su 4 rischia di diventare obeso se divezzato prima dei 4 mesi compiuti, mentre solo 1 su 20 rischia di diventare obeso se divezzato a partire dal 5° mese. Ecco perché è consigliabile aspettare un mese in più. «È cruciale però anche non ritardare i tempi, perché questo è un periodo-finestra importante per la formazione del gusto: se si aspetta troppo a divezzare il piccolo, si rischia di farne un bambino (e magari anche un adulto) “schizzinoso”», conclude il nutrizionista.
Mariateresa Truncellito
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