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Dopo il primo caso, scoperto in aprile in un lavoratore del Texas, anche una seconda persona, questa volta in Michigan, ha contratto l’influenza aviaria H5N1 HPAI che sta circolando tra i bovini. L’uomo, che lavora nel settore caseario, ha avuto solo una congiuntivite, ma il fatto che si trovi a migliaia di chilometri di distanza dal primo caso sta destando grande preoccupazione per la diffusione del virus. E infatti molti addetti stanno iniziando a lavorare con la mascherina, secondo quanto afferma l’agenzia Reuters.

La notizia giunge dopo che, nei giorni scorsi, ne erano arrivate altre, più tranquillizzanti, tra le quali quelle sulla carne. Era infatti stato dimostrato che anche se la carne di un hamburger provenisse da una mucca infettata dal virus dell’influenza aviaria H5N1, non ci sarebbe rischio di trasmissione all’uomo, perché la cottura disattiverebbe il microrganismo.

La carne

I controlli sulla carne avevano già avuto un esito rassicurante, perché tutti e trenta i campioni acquistati nei supermercati delle zone delle infezioni erano risultati negativi, ma lo USDA ha voluto fare un passo in più. I suoi ricercatori hanno iniettato alte concentrazioni di virus H5N1 in carne da hamburger, poi l’hanno cotta a temperature comprese tra i 63 e i 71 °C, dimostrando che il virus era totalmente disattivato. Al contrario, fermandosi a 48-49°C, potevano ancora trovare tracce del virus, sia pure in quantità minime. Il consiglio è quindi quello di cuocere bene la carne, anche se, in teoria, gli animali infetti non dovrebbero entrare nel circuito della macellazione.

Il latte

Anche i dati sul latte, resi noti pochi giorni prima dalla Food and Drug Administration, erano stati rassicuranti: nessuno dei 297 campioni analizzati in 17 Stati era risultato positivo per la presenza di virus vivi, anche se il 20% aveva tracce di materiale genetico virale. Restava sconsigliato il consumo di latte crudo. Ma la situazione, per il latte, è assai più complessa di così.

Latte fresco crudo versato in una tanica
È sempre sconsigliato il consumo di latte crudo

Sul perché il latte sia comunque un osservato speciale, una spiegazione arriva da uno studio ancora in attesa di revisione, pubblicato su BioRXiv dai ricercatori dell’Università di Copenaghen, in Danimarca, guidati dal virologo veterinario Lars Erik Larsen: le mammelle delle vacche esprimono elevatissime concentrazioni di recettori (di acido sialico) ai quali il virus H5N1 si attacca, a differenza del naso, delle vie aeree o del sistema nervoso, che ne hanno molto pochi. La situazione, in questi animali, è dunque del tutto particolare, rispetto alle numerose altre specie che si sono infettate dallo stesso virus e che esprimono gli stessi recettori soprattutto nel sistema respiratorio.

Recettori e virus H5N1

Questo chiarisce perché le bovine malate abbiano i segni dell’infezione alle mammelle, ma molto raramente altrove. Inoltre, spiega perché H5N1 sia così presente nel latte, dove arriva a essere mille volte più concentrato rispetto a quanto non si veda nei serbatoi naturali. Secondo quanto affermato dai ricercatori danesi alla CNN, il latte di una sola mucca malata sarebbe sufficiente a contaminare mille tonnellate di latte di vacche sane: anche con quella diluizione, sarebbe ancora possibile trovare virus con i normali test di laboratorio.

Ma ciò che desta preoccupazione è soprattutto un altro fatto: quei recettori sono molto simili a quelli presenti nel corpo umano, (sempre di acido sialico, ma con piccole differenze strutturali), e questo potrebbe favorire la nascita di varianti del virus capaci di attaccarsi a entrambi i tipi di recettore. Se i dati danesi fossero confermati, la sorveglianza sulle bovine da latte potrebbe diventare più stringente.

La sorveglianza nelle acque di scarico

Tra le iniziative prese per monitorare la situazione, c’è anche l’analisi delle acque reflue effettuata dai Centers for Diseases Control (CDC) di Atlanta in 600 siti in tutto il Paese che ha dato esiti non così chiari. Le acque di alcune zone dell’Illinois e della Florida risultano ospitare elevate concentrazioni di virus influenzali di tipo A, la famiglia cui appartiene anche H5N1, e anche se non si sono registrati aumenti di contagi da virus influenzali A tra gli esseri umani, né cluster di infezioni tra i bovini, il riscontro merita approfondimenti, che infatti sarebbero in corso. Tuttavia, anche qualora fosse trovato H5N1, non sarebbe possibile stabilirne la provenienza, perché il virus potrebbe arrivare dagli allevamenti, dal latte, dalla carne, dai normali serbatoi come gli uccelli selvatici o da esseri umani infettati.

Donna coni guanti preleva un campione d'acqua con una pipetta da un fiume o un lago; concept: inquinamento delle acque
Gli esperti hanno rintracciato la presenza di aviaria H5N1 negli scarichi di tre corsi d’acqua del Texas

In febbraio, e cioè prima ancora del salto di specie e del contagio al lavoratore, uno studio non sottoposto a revisione, e pubblicato su MedRXiv dai virologi della Emory University, aveva mostrato la presenza di aviaria H5N1 negli scarichi di tre corsi d’acqua del Texas vicini alle fattorie dove in seguito sono state scoperte le vacche infette, e nei quali erano sversati i rifiuti di aziende che lavorano il latte e i derivati. Ma, anche in questo caso, è necessario proseguire con le indagini, e capire, se possibile, che cosa sia successo.

I provvedimenti

Mentre i CDC invitano tutti i lavoratori del settore a indossare le mascherine protettive, lo USDA ha stanziato 22,2 milioni di dollari per un’azione più sistematica, che comprende anche la fornitura di strumenti di protezione individuale. Inoltre, prevede sostegni economici per gli allevatori che controllino attivamente gli animali (per esempio, l’assistenza gratuita da parte di veterinari specializzati). Contiene poi riferimenti a risarcimenti per allevatori che perdano introiti derivanti dal mancato commercio di carne o latte proveniente da animali infetti (che non possono essere utilizzati per prodotti per il consumo umano), e fondi per migliorare l’organizzazione dell’allevamento aumentando la sicurezza microbiologica. Inoltre,  i CDC hanno chiesto agli Stati di prepararsi per testare il maggior numero possibile di animali in estate, cercando di intercettare eventuali altri casi di trasmissione all’uomo dell’influenza aviaria.

L’organizzazione Mondiale della Sanità invita anch’essa a tenere molto alta la guardia, perché gli uccelli selvatici migrano, e non sarebbe affatto anomalo trovare l’infezione in bovini di zone diverse dal Nordamerica.

I vaccini contro l’aviaria

La domanda che in molti hanno posto nelle ultime settimane è infine quella relativa ai vaccini. In caso di epidemia, gli Stati Uniti e il mondo sarebbero preparati, posto che tutti gli esseri umani sarebbero indifesi verso un’influenza aviaria? Il sistema di prevenzione statunitense al momento dispone di quattro vaccini, due dei quali potenzialmente utili. Una produzione su larga scala, ancora basata sulle uova, teoricamente pronta a fornire milioni di dosi in poche settimane (e fino a 100 milioni in tre-quattro mesi), potrebbe però essere fortemente rallentata dalla diffusione della malattia proprio tra i volatili, e è opportuno tenerne conto. Nel frattempo, sono in sperimentazione vaccini a mRNA di Moderna, che entro l’estate dovrebbero iniziare la fase 3, su grandi numeri di volontari.

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