Che siano nazionali, locali o volontarie, poco importa: le politiche messe in atto per ridurre gli acidi grassi trans nei prodotti alimentari funzionano e sembrano avere un effetto reale sulla salute dei consumatori. Lo dimostra uno studio australiano recentemente pubblicato sul Bulletin of the World Health Organization, il bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: tre ricercatori dell’Università di Sidney mostrano l’efficacia di questo genere di interventi.
Il dato di partenza è semplice: gli acidi grassi trans (TFA) sono nemici della salute, e in particolare lo sono quelli ottenuti per via industriale tramite l’idrogenazione di alcuni oli vegetali. Diversi studi hanno dimostrato che il loro consumo si associa a un aumento del rischio di malattie cardiovascolari, infertilità, endometriosi, calcoli biliari, morbo di Alzheimer, diabete e perfino alcuni tipi di cancro.
Per questo motivo, da anni, diverse autorità sanitarie tra cui l’OMS si battono per l’eliminazione dei TFA dai cibi. Alcuni paesi come la Danimarca hanno compiuto notevoli progressi (noi de Il Fatto Alimentare ve ne abbiamo già parlato in un servizio dello scorso settembre); nondimeno, in altri paesi rimane il dubbio che le politiche di restrizione sui TFA siano difficilmente realizzabili e comunque poco efficaci.
Per fare chiarezza sulla questione, Shauna Downs e due colleghi di Sydney hanno eseguito una revisione sistematica di 26 studi scientifici pubblicati a partire dal 2002 e relativi a cinque tipi di interventi restrittivi: autoregolamentazione volontaria da parte delle industrie, obbligo di dichiarazione in etichetta del contenuto di TFA, obbligo di etichetta combinato a limitazioni volontarie, divieti locali e divieti nazionali. I paesi studiati come case history sono stati: Brasile, Canada, Costa Rica, Danimarca, Paesi Bassi, Corea del Sud, Stati Uniti.
Nel complesso si è visto che tutti gli interventi hanno portato a una riduzione del contenuto di TFA nei prodotti alimentari in commercio. Non solo: i dati dicono che la riformulazione dei prodotti non ha in genere comportato l’aumento del contenuto di acidi grassi totali e in particolare di acidi grassi saturi (altra categoria di sostanze ritenute dannose per la salute). Fanno eccezione i popcorn e alcuni prodotti da forno nei quali il livello di acidi grassi saturi è aumentato.
Analizzando i valori in dettaglio, è emerso che la riduzione del contenuto di TFA risulta più marcata nel caso di limiti o divieti imposti a livello nazionale o regionale, come è accaduto in Danimarca o in Corea del Sud.
Gli interventi sulle etichette sembrano invece un po’ meno efficaci perché presuppongono una popolazione ben informata sui rischi del consumo di TFA e in grado di interpretare correttamente le informazioni nutrizionali. Inoltre, l’indicazione in etichetta spesso è correlata alla coesistenza sul mercato di prodotti con pochi TFA, ma più costosi e meno accessibili ai consumatori a basso reddito e di prodotti con valori elevati di TFA, più a buon mercato. Gli autori dello studio ricordano che l’obbligo delle dichiarazioni in etichetta funziona soprattutto per i prodotti industriali, mentre in molti casi, specialmente nei paesi a basso o medio reddito, la fonte principali di TFA è costituita dai cibi di strada e dal fast food.
Anche le limitazioni volontarie non imposte dal legislatore possono funzionare, ma non in tutti i contesti. Downs e colleghi ricordano, a titolo di esempio, che tale iniziativa si è rivelata inefficace a New York, mentre è stata positiva nei Paesi Bassi, paese che ha una lunga tradizione di concertazione per risolvere problemi di interesse sociale.
Oltre ad analizzare il contenuto di TFA nei cibi in relazione alle varie politiche di restrizione, lo studio australiano ha valutato l’effetto di queste ultime sui parametri legati direttamente alla salute pubblica. Nei Paesi Bassi, l’autoregolamentazione volontaria è risultata associata a una riduzione del 20% dell’apporto di acidi grassi trans. Meno 30% nella dieta in Canada, dove l’autoregolamentazione è stata abbinata a etichettatura obbligatoria. In alcuni stati Usa, l’etichettatura è andata di pari passo a una riduzione dei livelli di TFA nel sangue (meno 58%); infine in Costa Rica la limitazione volontaria è risultata correlata a una significativa diminuzione del rischio di infarto cardiaco.
La revisione condotta dai ricercatori australiani soffre di alcuni limiti: non tutti gli studi che analizza sono di elevata qualità scientifica. Tuttavia, ci pone di fronte a un’indicazione chiara, inequivocabile e indiscutibile: è utile ridurre la presenza di acidi grassi trans nei prodotti alimentari per ottenere un impatto positivo sulla salute pubblica.
Valentina Murelli
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giornalista scientifica
Nei due servizi sui TFA non viene riportata la situazione italiana.
Non si hanno notizie da parte dei nostri controllori ufficiali, o è meglio parlare dei problemi degli altri paesi?
da addetto ai lavori posso fare presente che l’industria alimentare italiana ha volontariamente ridotto il tenore di TFA praticamente a zero attraverso un processo di riformulazione dei prodotti avviato ben prima che nei Paesi nominati nell’articolo. E questo senza l’ obbligo di uniformarsi a specifici obblighi di legge, che peraltro non esistono. I precursori di questa politica sono stati, per citare i piu’ conosciuti, Barilla e Ferrero (ma faccio torto a molti altri).