Poco meno di 50 mila dollari a testa (valore attuale), elargiti a tre scienziati di Harvard in cambio di una review in grado di assolvere lo zucchero dall’accusa di essere tra i fattori di rischio per le malattie cardiovascolari. Siamo nel 1965 e a versare l’ingente somma è la Sugar Research Foundation (SRF), oggi Sugar Association, un potente gruppo di rappresentanza degli interessi di Big Sugar, l’industria dello zucchero. Le prove? In un corposo carteggio tra i dirigenti di SRF – il vicepresidente e direttore scientifico John Hickson in testa – e i tre ricercatori in questione – Mark Hegsted, Fredrick Stare e Robert McGandy – portato alla luce dal gruppo di ricerca di Stanton Glantz, dell’Università di San Francisco. Un accurato resoconto di quel carteggio e di un’altra serie di documenti privati e pubblici della SRF è appena stato pubblicato su Jama Internal Medicine, in un articolo che parte dalla ricostruzione storica per lanciare un monito preciso ai decisori politici di oggi e di domani, chiamati risolutamente a diffidare dagli studi finanziati dall’industria alimentare. Un consiglio che l’esperta di politiche alimentari Marion Nestle, dell’Università di New York, non ha esitato a definire ‘eccellente’, perché la semplice dichiarazione dell’esistenza di eventuali conflitti di interesse “non è sufficiente a rendere conto di tutti le potenziali distorsioni che possono accompagnare questo tipo di finanziamento”.
Ma torniamo allo studio di Glantz e colleghi, e ai fatti. Tutto ha avuto inizio negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando sono cominciate le prime ricerche per cercare di capire le ragioni di un significativo aumento, tra i cittadini americani, della mortalità causata da malattie cardiovascolari. Già all’inizio degli anni Sessanta erano due le ipotesi principali del fenomeno: secondo il fisiologo Ancel Keys – poi diventano famoso come ‘papà’ della Dieta mediterranea – i colpevoli principali erano i grassi, in particolare quelli saturi, e i livello di colesterolo nel sangue. Secondo il nutrizionista britannico John Yudkin, invece, sul banco degli imputati sedevano principalmente gli zuccheri aggiunti (non quelli presenti naturalmente negli alimenti ma quelli, appunto, aggiunti durante la preparazione domestica e industriale dei cibi): un’ipotesi che non poteva certo far piacere ai produttori di zucchero. Che, secondo quanto riportato da Glantz e collaboratori, si sono subito dati da fare per correre ai ripari. Non è dunque un caso che, nel dicembre 1964, Hickson invitasse la dirigenza della SFR ad “avviare un programma per contrastare i risultati di Yudkin e altre attitudini negative nei confronti dello zucchero“. Del programma doveva far parte una review, una revisione sistematica della letteratura scientifica pubblicata sull’argomento fino a quel momento – in grado di mostrare tutti i punti deboli degli studi già effettuati e di confutare i detrattori dello zucchero.
Si tratta di una strategia ‘astuta’, secondo quanto avrebbe dichiarato lo stesso Glantz al New York Times, perché le review sono uno degli strumenti ai quali più si affidano scienziati e decisori politici per stilare direttive e indicazioni di salute pubblica. Specialmente se si tratta di revisioni pubblicate da riviste prestigiose, e quella in questione apparirà proprio su una delle più importanti, allora come oggi: il New England Journal of Medicine. L’SFR, dunque, chiama direttamente in causa tre grandi ricercatori di Harvard e uno di loro, Hegsted rassicura Hicskon in questi termini sul senso del lavoro assegnato: “Abbiamo ben compreso il vostro particolare interesse nei carboidrati (in particolare nello zucchero, NdR) e ce ne occuperemo come meglio potremo”. Nell’ottobre del 1966, dopo che l’SFR ha avuto modo di leggerne le bozze, l’articolo è pronto per la pubblicazione. Hickson è soddisfatto: “È più o meno quello che avevamo in mente, e non vediamo l’ora che venga pubblicato”. Cosa che succederà nel 1967, con l’uscita di due articoli successivi appunto sul New England Journal of Medicine. Le conclusioni sono nette: per quanto sembri effettivamente esistere un’associazione tra consumo di grassi e zuccheri e rischio di mortalità cardiovascolare, gli unici interventi efficaci per ridurre questo rischio sarebbero quelli relativi alla riduzione del colesterolo e alla sostituzione dei grassi saturi con grassi insaturi nella dieta degli americani. In altre parole: zucchero assolto.
Per Marion Nestle la situazione è chiara: “I ricercatori sapevano quali risultati si aspettassero i loro finanziatori, e li hanno prodotti. Non si sa se l’abbiano fatto deliberatamente, inconsciamente, o perché genuinamente convinti che i grassi saturi fossero davvero la minaccia principale per la salute, ma in ogni caso la scienza non può lavorare in questo modo”. Per esempio, selezionando a priori gli studi da analizzare – come sembrano aver fatto gli autori della review – in modo da ottenere il risultato desiderato. Certo, è anche difficile valutare il ruolo di una singola review, e di una vicenda che ha coinvolto una sola tra tutte le possibili realtà interessate nella discussione, la SFR, sul destino dello zucchero nelle successive indicazioni nutrizionali americani e internazionali. Sta di fatto, ricordano Glantz e colleghi, che “già all’inizio degli anni ottanta pochi scienziati erano ancora convinti che gli zuccheri aggiunti potessero giocare un ruolo significativo nell’insorgenza di malattie cardiovascolari, e che le prime Linee guida alimentari per gli americani, emesse proprio nel 1980, si concentravano esclusivamente sull’importanza della riduzione dei grassi, totali e saturi, e del colesterolo”. Solo negli ultimi anni le cose hanno preso una piega differente, con sempre più autorità scientifiche e sanitarie che stanno ricominciando a dire che troppi zuccheri aggiunti possono aumentare il rischio cardiovascolare (oltre a quello di carie). Lo ha fatto nel 2015 l’Organizzazione mondiale della sanità e lo ha fatto ancora più di recente l’American Heart Association, che ha posto paletti molto rigidi per la dieta anche di bambini e adolescenti: niente zuccheri aggiunti fino a 2 anni, e non più di 25 grammi al giorno – circa 6 cucchiaini – fino a 18 anni.
Ovviamente la reazione della Sugar Association non si è fatta attendere: se da un lato ammette che la SFR “avrebbe dovuto mostrare maggior trasparenza nelle sue attività di ricerca”, dall’altra sottolinea che “all’epoca dei fatti gli standard di trasparenza sui finanziamenti previsti oggi non erano ancora la norma”. Insiste sul fatto che “gli ultimi decenni di ricerche hanno concluso che non ci sarebbe un ruolo univoco dello zucchero rispetto alle malattie cardiache” e si chiede se lo studio su Jama Internal Medicine non stia soltanto cavalcando l’onda delle recenti polemiche anti-zucchero e dei titoloni a effetto che puntano a minimizzare la qualità della ricerca scientifica. Infine, sostiene il ruolo positivo della ricerca finanziata dall’industria nel fornire risultati e informazioni importanti anche su temi chiave della nutrizione. Punto, questo, che è esattamente l’oggetto del contendere.
Davvero vogliamo che a dire cosa fa bene e cosa fa male – e quanto – in ambito nutrizionale, siano studi finanziati dall’industria alimentare? È innegabile che la tendenza esista, e vari esempi lo dimostrano: nel 2015, il New York Times aveva denunciato le strette relazioni di Coca-Cola con ricercatori impegnati in studi volti a minimizzare gli effetti delle bevande zuccherate sull’obesità. E poche settimane fa, l’Associated Press ha ottenuto email in grado di dimostrare come un’associazione dolciaria abbia finanziato e influenzato studi per mostrare che i bambini che mangiano dolciumi hanno un peso corporeo più sano di quelli che non li mangiano. Per Marion Nestle, “la sponsorizzazione da parte dell’industria, che sia o meno intenzionalmente manipolativa, mina la fiducia pubblica nella scienza della nutrizione, contribuisce alla confusione su cosa mangiare e interferisce con la stesura delle Linee guide alimentare in modi che non sono nel reale interesse della salute pubblica”. E noi la pensiamo come lei.
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giornalista scientifica
Ironico che l’esperta di politiche alimentari si chiami Nestle eheh 😀
“in cambio di una review” …
Scrivere in italiano non è fattibile, utilizzando gli anglicismi solo quando è realmente inevitabile?
Tra l’altro non sta in piedi la teoria che i giornalisti usano gli anglicismi per evitare le ripetizioni dei termini (ed i sinonimi?) dato che il termine Review è usato 2 volte in 3 righe.
Come dice sempre un mio amico: “fallo leggere a mia madre e vediamo che capisce…”
Mi dispiace, ma nel mondo accademico e scientifico una “Review” è una cosa ben precisa e non traducibile, usare uno dei 15 significati che gli attribuiscono gli anglofoni sarebbe fuorviante per chi legge
Bravo Paublog!
Come con l’olio di palma “insostenibile” così con gli zuccheri aggiunti. Gli interessi in campo alimentare fra aziende produttrici prevalgono evidentemente sul diritto alla salute dei cittadini. Ma non è anche questa un’azione criminale?
Solo una piccola osservazione: negli usa il principale docificante non di sintesi NON è lo zucchero di canna o barbabietola, ma l’High-Fructose Corn Syrup (HFCS – https://en.wikipedia.org/wiki/High_fructose_corn_syrup), usato, ad esempio, in gran parte delle bevande gassate vendute sul mercato americano. Chiedo quindi una cosa: l’articolo si riferisce ai “danni” della zucchero come lo intendiamo noi o all’HFCS?
L’articolo – che è un’analisi storica – si riferisce allo zucchero come lo intendiamo noi. Nel carteggio citato si parla appunto dello zucchero estratto da barbabietola o canna. Del resto, l’HFCS è stato introdotto nell’industria alimentare solo negli anni settanta. Quindi dopo il periodo relativo a tutta questa vicenda.
Nihil sub sole novum. E per una pentola che viene scoperchiata, chissà quante ancora rimangono chiuse o vengono nel frattanto chiuse per nascondere la merda che ci sta dentro. Perdonate il termine, ma bisogna chiamare le cose col nome che più gli si confa. Esempi di questo tipo, in passato, se ne contano a iosa. Nei primi anni 90′, ad esempio, le lobbies americane della produzione di carne, latte e derivati, a suon di propaganda di scienziati prezzolati e asserviti a privati interessi, ebbero la forza di demolire letteralmente le Dietary Guidelines stilate dai comitati scientifici pubblici a stelle e strisce perchè ritenute potenzialmente lesive per i loro futuri profitti. Originariamente, infatti, il grosso delle linee guida americane per una sana alimentazione erano state rese note al pubblico nella forma sintetica de “La piramide del mangiare giusto” alla cui cima, e pertanto da consumare moderatamente, erano stati collocati proprio gli alimenti animali “terrestri” e derivati. Dopo l’intervento delle lobbies di cui sopra, nelle successive edizioni delle Dietary Guidelines “La piramide del mangiare giusto” venne rinominata in “La piramide guida alimentare” e le indicazioni per una sana alimentazione non fecero più menzione esplicita di alimenti da ridurre/escludere, ma solo di contenuti (grassi totali, ecc. ) da tenere a bada spostando il focus dell’attenzione primariamente sul concetto del raggiungimento della fitness attraverso l’esercizio fisico piuttosto che attraverso il controllo della dieta. Come possiamo constatare, le denunce postume servono a ben poco. Gli interessi economici in gioco, in ogni settore, sono di norma tali a tanti che le “magagne” che si trascinano dietro tendono spesso a venire alla luce solo quando il ROI (return of investment) si è ormai abbondantemente compiuto. E’ il prezzo che paghiamo e stiamo pagando al capitalismo purtroppo. Finchè il sottostante movente di ogni azione umana sarà il vil denaro, eccesso, illogicità e egoistica predatorietà continueranno a prendere sempre più il posto di equilibrio, logica e solidarietà, sentimenti sempre meno percepiti come naturali e che alla lunga saranno reificati ed in quanto tali acquistabili anch’essi al solo fine di ripulire la coscienza individuale di ognuno dalle nefandezze di cui è compartecipe quotidianamente.
Vi ricordate della vicenda del dolcificante “ciclamato” che in quegli anni è stato fatto passare per cancerogeno con uno studio “pilotato” in cui ai ratti erano somministrate dosi da cavallo? dopo anni la fola artificiale fu smascherata.
@Simone: prendo atto che “usare un altro termine è fuorviante per chi legge”, tuttavia se chi legge non conosce l’inglese, tanto più se il termine è tecnico, cosa potrà mai capire in realtà?
Se l’articolo è destinato agli addetti ai lavori va da sè, ma se è scritto da tecnici e rivolto al pubblico, come dovrebbe essere lo scopo de Il Fatto Alimentare, allora ci si deve spiegare al meglio e non nascondersi dietro ai tecnicismi.