Pomodoro: lo sfruttamento dei migranti. Intervista al responsabile agricolo di Mutti: “Ecco le condizioni che poniamo ai nostri fornitori”
Pomodoro: lo sfruttamento dei migranti. Intervista al responsabile agricolo di Mutti: “Ecco le condizioni che poniamo ai nostri fornitori”
Beniamino Bonardi 14 Marzo 2016Nei giorni scorsi, l’European House – Ambrosetti e l’Agenzia italiana delle agenzie per il lavoro (Assocom) hanno presentato uno studio sul lavoro in somministrazione (ex interinale) in agricoltura, in cui viene affrontato anche il problema del caporalato. Con questo termine si intende quella forma illegale di reclutamento e organizzazione della manodopera, strutturata attraverso intermediari (caporali) che assumono per conto dell’imprenditore operai giornalieri (a fronte di una tangente) al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali. Il caporalato si inserisce nella mancanza di rapporti strutturati tra imprenditori agricoli e lavoratori dei campi. Nel Mezzogiorno questa forma di organizzazione illegale detiene il monopolio nell’attività di mediazione, anche se ora si registra un incremento del fenomeno anche nelle regioni del Centro-Nord.
Secondo lo studio ci sono almeno 80 i distretti agricoli in cui si pratica il caporalato: in 33 sono state riscontrate condizioni di lavoro indecenti e in 22 condizioni di lavoro gravemente sfruttato, mentre negli altri si consuma “solo” l’intermediazione illecita di manodopera. I lavoratori coinvolti sono 400.000, l’80% dei quali sono stranieri. Di questi una parte consistente (100.000 circa) soffrono anche un disagio abitativo e ambientale. Il salario giornaliero ammonta a circa 25/30 euro per più di 12 ore di lavoro e corrisponde a circa la metà rispetto a quello previsto dai contratti nazionali. A questa somma bisogna sottrarre il trasporto dei lavoratori (5 euro), l’acquisto di acqua e cibo, l’affitto degli alloggi e l’acquisto di medicinali. Il mancato gettito contributivo per lo Stato è valutato in circa 600 milioni di euro l’anno.
Il caporalato pone seri rischi per la sicurezza e la salute delle persone. Nell’estate 2015 ci sono state almeno dieci le vittime del caporalato, il 72% dei lavoratori presenta malattie che prima dell’inizio della stagionalità non si manifestano, il 64% non ha accesso all’acqua corrente e il 62% degli stranieri impegnati nelle stagionalità agricole non ha accesso ai servizi igienici. Le malattie, per lo più curabili con una semplice terapia antibiotica, si cronicizzano perché manca un medico a cui rivolgersi, e i soldi non bastano per acquistare medicine.
Per contrastare il fenomeno del caporalato, nel settembre 2015 ha iniziato ad operare la “Rete del lavoro agricolo di qualità” una struttura prevista dalla legge n. 116 del 2014 che costituisce un sistema di certificazione da parte dello Stato. Le imprese agricole possono così accedere alla rete seguendo le procedure indicate sul sito dell’Inps e ottenere un certificato di qualità, subordinato al rispetto di alcuni requisiti: non aver riportato condanne penali e non avere procedimenti penali in corso per violazione della normativa in materia di imposta sui redditi e sul valore aggiunto; non essere stati destinatari, negli ultimi tre anni, di sanzioni amministrative definitive per le violazioni della normativa in materia di imposta sui redditi e sul valore aggiunto; essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi.
L’avvio della Rete del lavoro agricolo di qualità è stato stentato: su circa 200.000 imprese agricole potenzialmente interessate, alla fine di dicembre solo 207, pari all’un per mille, aveva ottenuto la certificazione. Per rafforzare la Rete, nel mese di novembre 2015 il governo ha presentato in parlamento un disegno di legge contro il caporalato e il lavoro nero in agricoltura, che interviene anche sulle norme penali finalizzate a contrastare questo fenomeno e prevede un piano per l’accoglienza dei lavoratori agricoli stagionali. Tre mesi fa, infine, le organizzazioni norvegesi, danesi e britanniche aderenti all’Ethical Trading Initiative (ETI) – un’alleanza formata da imprese, sindacati e ong, impegnata per il rispetto dei diritti dei lavoratori nel mondo – hanno pubblicato un rapporto che denuncia il massiccio sfruttamento degli immigrati nell’industria del pomodoro nelle regioni del Sud-Italia e alcune infiltrazioni di tipo mafioso. L’ETI invita i rivenditori europei a controllare la catena di approvvigionamento, perché le condizioni di sfruttamento nella raccolta del pomodoro in Italia potrebbero compromettere la loro reputazione. Anche in Australia sono state avanzate perplessità sulle condizioni di lavoro nella filiera del pomodoro italiano.
L’ETI afferma che le aziende italiane trasformatrici di pomodori devono controllare con maggiore attenzione la filiera. In Italia, esistono due associazioni industriali di questo settore. L’Anicav (Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali), aderisce a Confindustria e rappresenta l’80% delle imprese del settore della trasformazione del pomodoro, in particolare quelle del Sud Italia, e l’Aiipa (Associazione italiana industrie prodotti alimentari) che riunisce le industrie operati prevalentemente nel Nord. Dopo un primo articolo pubblicato su Il Fatto Alimentare con il parere dell’Anicav, abbiamo intervistato Ugo Peruch, responsabile agricolo dell’azienda del pomodoro Mutti (aderente all’Aiipa).
Cosa pensa del rapporto dell’ETI?
Il rapporto ETI è un lavoro serio, che fa dei distinguo molto importanti, tra la realtà del Nord Italia e quella del Sud, tra la raccolta meccanica e quella manuale, tra le aziende che hanno sistemi di tracciabilità solidi con i loro fornitori e quelle senza questi sistemi. Ho letto con soddisfazione il rapporto perché è in linea con quello che stiamo facendo. Distinguere la raccolta meccanica da quella manuale non è un aspetto secondario. Mutti opera prevalentemente nel Nord Italia ma ha anche uno stabilimento a Salerno, e la nostra scelta è stata di richiedere dai fornitori il 100% di raccolta meccanica, proprio per uscire dalla problematica del caporalato e dello sfruttamento. Ritengo importante anche la raccomandazione dell’ETI alla grande distribuzione, che è il committente dello studio, per evitare trattative molto aggressive dal punto di vista economico, perché in questo modo la parte più debole della filiera produttiva paga il prezzo più elevato.
Voi chiedete il 100% di raccolta meccanica solo al Nord o anche al Sud?
Il 100% di raccolta meccanica al Nord, mentre al Sud abbiamo una clausola con i nostri fornitori per cui questo sistema di raccolta valer per tutti i pomodori ad eccezione di alcune produzioni, come i ciliegini e i piccoli pomodori, oppure di situazioni contingenti, come la presenza di sassi sul terreno, che costringono a ad operare manualmente. Si tratta di una piccola percentuale, intorno al 20% del totale di pomodori raccolti al Sud. Nei casi della raccolta manuale, Mutti chiede ai fornitori agricoli di dimostrare l’esistenza di persone assunte regolarmente e che tutto venga fatto nel rispetto della legge. Dopo la pubblicazione del rapporto dell’ETI, pensando ad un rinnovato interesse verso il problema della manodopera in agricoltura, abbiamo incontrato tutti i nostri fornitori, del Nord e del Sud, chiedendo di aderire alla Rete di lavoro agricolo di qualità. La reazione è stata positiva e stiamo attendendo una risposta. Vogliamo poter dire che il 100% dei nostri fornitori aderisce al sistema.
Ritenete che la certificazione etica possa essere uno strumento efficace?
A noi piace fare un passo alla volta. L’anno scorso chiedevamo alle aziende agricole il DURC, il documento unico di regolarità contributiva. Quest’anno stiamo chiedendo di aderire al sistema di certificazione del lavoro che ha proposto il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, la Rete di lavoro agricolo di qualità. È necessario, però, che dalla parte pubblica le cose funzionino.
Prima ha accennato della necessità di evitare trattative aggressive sui prezzi da parte delle catene di supermercati. Questa cosa sia potrebbe essere la causa principale che determina situazioni di sfruttamento nella raccolta del pomodoro?
Il problema è molto complesso, perché in questa vicenda influiscono anche i maggiori flussi migratori collegati alle guerre. Senza dubbio, però, se si fa una trattativa all’ultimo prezzo, con scontistiche molto elevate, nell’ordine del 30%, si erode non solo la marginalità, che è già limitata, ma si va anche quasi nella zona dell’incauto acquisto. Ogni pezzo della filiera deve prendersi le sue responsabilità e agire, nessuno può chiamarsi fuori. Perciò, la grande distribuzione, quando fa una trattativa, deve porsi dei limiti, oltre i quali non bisogna andare.
Nel “paese delle svariate furberie”, dove è culturalmente proibito porsi delle domande del come e dove si produce il “made in italiopoli”, l’ignoranza è di rigore!
il rappresentante di Mutti ha ragione nel criticare le politiche della GDO, ma pecca di presunzione o ingenuità, quando pensa che la semplice meccanizzazione dei raccolti possa risolvere il problema del caporalato. occorrono i controlli sul campo. non esistono alternative!
Se la certificazione ha prodotto solo l’1 per mille di adesioni, forse qualche problema c’è ancora!
I trasformatori sono l’asse centrale della filiera e l’origine, o la possibile soluzione del problema.
Il produttore che commercializza con un proprio marchio, ne determina il prezzo di vendita, i margini commerciali e quindi può e deve riconoscere un prezzo equo all’acquisto della materia prima.
I produttori che trasformano per la GDO e per marchi terzi, sono alla guerra dei prezzi di acquisto e di vendita, per ricavare una marginalità molto ridotta, ottenuta con il ricatto agli agricoltori.
Questi ultimi, se vogliono vendere il prodotto coltivato, devono fare quello che fanno e che tutti condanniamo.
Un tavolo di Confindustria con le associazioni di categoria coinvolte, per fissare un prezzo minimo delle materie prime, zona per zona e per tipologia di prodotto, è l’unica possibile soluzione.
Ma preferiamo costernarci per il caporalato e lo schiavismo, piuttosto che prendere iniziative concrete.
Sagge parole!