Panettone e pandoro senza farina? “Si può” dice il Ministero della salute. Una concessione assurda e miope che rovina l’immagine del prodotto
Panettone e pandoro senza farina? “Si può” dice il Ministero della salute. Una concessione assurda e miope che rovina l’immagine del prodotto
Roberto La Pira 9 Gennaio 2015Molti lettori ci hanno chiesto se il disciplinare che definisce la ricetta e le modalità di produzione del panettone e del pandoro permettono la preparazione di un dolce per i celiaci senza farina di grano. Abbiamo posto la domanda all’Aidepi (Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane). A dispetto di quanto credevamo, il direttore Mario Piccialutti ha confermato la possibilità di modificare la ricetta per i celiaci. Si tratta di un cambiamento recentissimo che non ci trova d’accordo. Seguendo questo percorso l’anno prossimo potrebbe arrivare una modifica della ricetta tipica per i diabetici e poi un’altra per gli allergici al latte e un’altra ancora per chi ha escluso le uova dalla dieta.
Il Fatto Alimentare ha sempre difeso la tipicità di panettone e pandoro considerati i migliori prodotti da forno della pasticceria artigianale e dell’industria alimentare italiana. Già la presenza di farciture esagerate (autorizzate dal Ministero dello Sviluppo economico e dal MIPAAF dopo avere sentito le parti interessate, artigiani e consumatori inclusi) allontana dalla ricetta originale e inficia l’immagine del dolce. La decisione del Ministero della salute per quanto riguarda l’estensione della denominazione panettone e pandoro ai prodotti per i celiaci, apre la strada allo snaturamento della ricetta che ha una fama internazionale, proprio perché rispetta la tradizione senza deroghe e senza eccezioni. Non rendersi conto di questo vuol dire essere miopi. Concessioni e deroghe così radicali come la sostituzione dell’ingrediente principale, possono solo disperdere il valore di prodotti considerati preziosi tasselli della patrimonio gastronomico. Procedendo in questa direzione tra qualche anno si comincerà a scrivere sulle confezioni la scritta “vero panettone” e “vero pandoro” e non sarà certo un buon segno.
RLP
Caro Dr. La Pira,
come ben ricorderà l’Aidepi allora Aidi , è stata l’Associazione che ha promosso presso il Ministero l’emanazione del Decreto 22 luglio 2005 proprio per tutelare e proteggere con una specifica normativa alcune tra le più note specialità della tradizione dolciaria italiana.
La norma nazionale prende infatti molto dai disciplinari di produzione che le nostre industrie sin dalla metà degli anni ’90 si erano impegnate a rispettare per garantire oltre alla ricetta tradizionale anche le stesse regole di base di tutti gli operatori incardinate principalmente su questi tre pilastri: lievitazione naturale, presenza esclusiva di burro, impiego di uova fresche.
Ci siamo successivamente battuti, dopo l’entrata in vigore del decreto, per il rispetto delle regole segnalando presso le Autorità competenti tutti quei prodotti di imitazione che in maniera ingannevole utilizzavano forme e modalità di presentazione che richiamavano i lievitati classici di ricorrenza e che si distinguevano da essi solo per il fatto di utilizzare spesso in maniera poco evidente denominazioni alternative a quelle protette. In tale contesto abbiamo avuto modo di apprezzare anche l’attività de Il Fatto Alimentare che ha sempre contrastato questo tipo di pratica. Tutto quanto sopra per evidenziare come nessuno più di noi tiene alla tutela e alla salvaguardia della norma sui lievitati di ricorrenza al cui interno oltre alle versioni classiche sono disciplinate anche le versioni “speciali e arricchite”, cioè quelle con farciture, ripieni e decorazioni, che comunque devono contenere almeno il 50% dell’impasto base e per le quali tutte le variazioni sul tema devono essere riportate in etichetta accanto alla denominazione riservata.
Proprio a proposito di variazioni sul tema qualche anno fa ci era stato richiesto di approfondire con l’Amministrazione la possibilità di realizzare dei lievitati di ricorrenza senza glutine, ovviamente destinati al target consumatori affetti da celiachia. L’Amministrazione, considerando congiuntamente la normativa sui lievitati di ricorrenza (DM 22 luglio 2005) e la normativa vigente in materia di prodotti destinati ad un’alimentazione particolare (DLgs. 111/1992 e DM 8 giugno 2001), che prevede l’autorizzazione dello stabilimento, la notifica dell’etichetta e l’inclusione in un apposito registro, ha confermato la possibilità della commercializzazione di tali prodotti riportando le medesime denominazioni riservate proprio per non “penalizzare l’interesse di quella specifica categoria di consumatori che si trova nella impossibilità di consumare alimenti contenenti glutine e che rischia di non essere posta in condizione di valutare l’ammissibilità del prodotto “senza glutine” ai tradizionali cosiddetti “lievitati di ricorrenza”. Nel rimandarla alla lettura della nota Ministeriale, la saluto cordialmente.
Mario Piccialuti (direttore Aidepi, Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane)
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Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade hanno lanciato una petizione online su Change.org per fermare l’invasione dell’olio di palma nei prodotti alimentari.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Perfetto, si è compiuta l’apoteosi del “senza”, abbiamo il panettone senza panettone.
Bellissima!!!
Anche la pasta, prodotto tipico italiano e che caratterizza una cultura. Anche la pizza…guai ad andare incontro alle esigenze di un celiaco no? Non se lo merita. Vogliamo mettere la tipicità della ricetta? Se quello è celiaco mica è colpa nostra, no. Che ci importa? Noi difendiamo la dipicità di una ricetta come abbiamo sempre fatto. Anzi perché non fare un’altra di quelle petizioni illuminate che sapete fare voi? Magari qualche altro migliaio di firme le raccattate
Pellegrino , la differenza è che c’è un disciplinare per il panettone e il pandoro.
Anche nell’articolo precedente ho letto questa indignazione, non tanto verso l’articolo, ma verso il fatto che in qualche modo si voglia discriminare qualsiasi intolleranza alimentare.
Si sta perdendo di vista il punto della questione, il problema NON è fare il panettone per celiaci, è chiamarlo Panettone.
Nessuno vuole impedire a nessuno di mangiare un dolce che sia assimilabile al classico dolce ma in una versione adatta all’intolleranza. Quindi per favore lasciamo da parte l’argomentazione delle discriminazioni, perchè nella vita vera le discriminazioni sono ben altre.
Vedo questo articolo soltanto oggi, dopo aver commentato aspramente la discriminazione verso bambini/ragazzi celiaci che a tavola avrebbero dovuto sapere che il panettone non è concesso loro ma che, in via del tutto eccezionale, avrebbero potuto gustare il “dolce” di natale! Davvero orribile come cosa, il Ministero della salute ha considerato soprattutto l’aspetto umano e non me ne meraviglio! I commentatori che si opponevano egoisticamente senza valutare le conseguenze umane della vicenda sono stati serviti!
Trovo questo articolo miope e offensivo per chi ha problemi di intolleranze o allergie alimentari.
Cari signori se volete fare polemica a tutti i costi fatela pure ma non sareste piu il mezzo d’informazione libero e trasparente che penso siate.
I celiaci sono tanti in italia.
Secondo voi meglio privarli di tutto cio che contiene glutine?
Mi aspetto un vostro dietro front.
Il problema non riguarda i celiaci ma il cambiamento di ricette tipiche regolamentate da disciplinari. Poi ben vangano tutti i prodotti per i celiaci per gli allergici al latte…
Premesso che faccio il consulente per alcune aziende che distribuiscono anche prodotti per celiaci e per portatori di altre allergie (e che quindi mi confronto quotidianamente con prodotti “free from qualcosa”), concordo con la posizione de “Il fatto alimentare”.
La questione non è privare il celiaco (o un intollerante alle uova o ai derivati del latte) di un dolce da ricorrenza, rendendolo un consumatore di serie B.
La questione è utilizzare una denominazione esattamente codificata per un prodotto diverso.
La norma stabilisce esattamente la composizione della confettura extra,che è “la mescolanza, portata a consistenza gelificata appropriata, di zuccheri, polpa non concentrata di una o più specie di frutta e acqua”. Se in luogo del saccarosio l’impresa intende utilizzare succo concentrato di mela, può senz’altro farlo, basta che eviti il ricorso alla denominazione “confettura extra” (riservato ai prodotti con un’ingredientistica ben precisa e diversa da quella utilizzata) e ricorra ad altre (“composta di…”, “crema di …”, “preparato a base di…”); se usa la denominazione impropria viene sanzionata e nessuno si sogna di gridare alla lesione di un qualche diritto.
Merita anche sottolineare che un Decreto interministeriale, com’è quello del 22 luglio 2005 che ha riservato le denominazioni di alcuni prodotti da forno, non può assolutamente essere modificato da una generica “nota ministeriale” (è questione di gerarchia del diritto), serve almeno un nuovo decreto interministeriale.
Ferma restando la simpatia e la solidarietà nei confronti dei celiaci, va evitato che per non penalizzare i consumatori allergici al glutine, quelli allergici alle uova e quelli allergici al latte, si arrivi a proporre un dolce “senza glutine, senza uova e senza burro” continuando a chiamarlo “panettone” che, in base alla norma, ha come ingredienti la farina di frumento, almeno il 16% di burro e almeno il 4% di tuorlo.
Per tenerla sul leggero (vedo interventi abbastanza tesi): personalmente sono vegetariano, ma non mi sento penalizzato perchè il “prosciutto di Parma DOP” dev’essere prodotto per forza col muscolo della coscia di suini pesanti nazionali, e non pretendo che mi sia reso disponibile un “prosciutto di Parma DOP senza carne di maiale”.
Roberto, molto chiaro e ben espresso il tuo concetto . il “problema” secondo me non è che tu, essendo vegetariano, debba “pretendere” un prosciutto di parma dop senza carne di maiale – sei vegetariano PER SCELTA . cosa diversa da un celiaco , che la sua malattia non l’ha scelta. io ti dico solo che ho visto la faccia felice di mio figlio (celiaco)quando ho portato a casa il panettone senza glutine e l’ho messo in tavola insieme a quello con il glutine. serve per non far sentire “diversi”, di serie B , appunto. se io chiedo prima a mio marito e agli altri figli “volete una fetta di panettone?” e poi chiedo a mio figlio celiaco “tu la vuoi una fetta del tuo … dolce di natale?” è OVVIO che lui si sentirà sempre DIVERSO. già la vita di un celiaco a volte è complicata, non impossibile, ma complicata e mi sembra che con questo articolo i passi che stiamo facendo in avanti vengono improvvisamente annullati e vi assicuro che ogni prodotto nuovo “di uso comune” è sempre una bella conquista. sia per una persona celiaca, sia per la sua famiglia, soprattutto quando parliamo di bambini.
Purtroppo per chi di voi difende il disciplinare come me è una battaglia persa….l’opposizione pur di contraddire ogni presa di posizione a difesa del patrimonio enogastronomico made in italy ha trovato come scusante le discriminazioni per chi ha problemi metabolici associati al consumo di alimenti e non cambieranno mai opinione..noi ci attacchiamo ai disciplinari, loro al nome, come se cambiando il nome il prodotto non sia più lo stesso. Ma perché se tanto ci tengono alla difesa della salute dei meno fortunati non combattono perché siano disponibili prodotti per diete particolari a costi più accessibili, visto che questi prodotto non è che te li regalano perché hai dei problemi eh, anzi!!!
Chiamare panettone un falso che non rispetta il disciplinare é poco intelligente
A Roberto La Pira, Direttore de IlFattoAlimentare.it
Panettone e pandoro senza farina? La risposta di AIC
Caro Direttore,
non posso che condividere la Sua posizione sulla tutela dei prodotti tradizionali italiani, a fronte del sempre più pericoloso italian sounding che sta investendo i mercati internazionali. E come è doverosa la tutela del consumatore da qualsiasi forma di messaggio fuorviante o ingannevole sugli alimenti, sarebbe anche necessario che dagli opinion leader si levasse la condanna della falsa informazione che induce i consumatori ad adottare stili di vita alimentari spacciati per salutisti e che non hanno spesso alcuno degli effetti pubblicizzati, se non l’artificiosa crescita del mercato.
Non ritengo, invece, che proporre una alternativa, non la sostituzione, di un prodotto della tradizione possa rappresentare un oggettivo pericolo o danno alle aziende italiane.
La specifica deroga, strettamente regolamentata, di cui stiamo discutendo, permette, invece, ad una categoria vulnerabile della popolazione di accedere a quelli che lei stesso definisce “preziosi tasselli del patrimonio gastronomico”. E’ da leggere, in verità, come un forte segnale di normalizzazione per le famiglie di chi soffre di celiachia, riconoscendo a quell’1% della popolazione che deve escludere il glutine a causa di una patologia cronica il diritto a non sentirsi diverso e a consumare alimenti che connotano fortemente le festività e la socialità delle persone.
Diverso è il caso di quegli alimenti che fraudolentemente mirano a ingannare il consumatore con diciture di fantasia che richiamano ricette della tradizione usando ingredienti diversi e di bassa qualità.
Peraltro è un tema, quello dell’ingannevolezza verso il consumatore, che come Associazione pazienti conosciamo bene, in un momento in cui la dieta senza glutine viene indicata a sproposito come pseudo-dieta dimagrante, salutare per tutti, benefica, ma in assoluta assenza di evidenze scientifiche. Il glutine, infatti, non è “tossico” per la generalità della popolazione e mangiare senza glutine non apporta alcun beneficio, ma diverse sono state le aziende che in questi anni hanno cercato di promuovere i propri prodotti specificamente formulati per celiaci, come “più sani e leggeri per tutti”.
Questo è un messaggio ingannevole, perché un alimento che tradizionalmente contiene glutine, come il pane o la pasta, ha ragione di chiamarsi ancora pane o pasta, pur non contenendo più farina di frumento, se è preparato proprio per chi soffre di celiachia.
Non possiamo quindi che concordare con la posizione espressa dal Direttore dell’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane.
Abbiamo più volte avuto Il Fatto Alimentare al nostro fianco, nelle battaglie a difesa e tutela del diritto delle persone affette di celiachia di condurre una vita serena, al riparo da pericolose contaminazioni e senza la ghettizzazione sociale che una alimentazione diversa spesso comporta in un paese dove tanto degli aspetti relazionali si svolge intorno ad un tavolo.
Confidiamo che ancora una volta sarete capaci di comprendere il nostro punto di vista.
Con la stima di sempre,
Caterina Pilo, Direttore Generale Associazione Italiana Celiachia
Christina.
Grazie del tono urbano (almeno non mi son pigliato del “miope” e “offensivo”).
Va tenuto presente che i redattori di questo sito sono professionisti dell’agro-alimentare (e grazie al cielo, il web pullula di interventi poco qualificati), così come parte dei lettori che occasionalmente, lascia commenti: per “missione” e per comprensibile deformazione professionale ragionano sulla norma, su come gli organi competenti sanzionano le non conformità, sulla leale concorrenza eccetera.
Se un’impresa si rivolge a noi per chiederci cosa ne pensiamo dell’idea di etichettare un prodotto come “latte di riso” o “panna di soia”, dobbiamo responsabilmente dirle che non se ne parla proprio, e non perchè intendiamo discriminare o indurre traumi nei bambini intolleranti al latte di vacca, ma perchè, ci piaccia o meno, la legge riserva le denominazioni “latte” al prodotto “ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa delle mammelle di animali in buono stato di salute e nutrizione”; panna, yoghurt eccetera solo dal latte possono derivare.
Se un’impresa etichetta come “latte di soia” viene sanzionata: non a caso tutti i produttori etichettano come “bevanda di soia” (alla faccia del disagio dei bambini allergici al latte).
Prima del DPR 187/2001 era vietata la produzione di “pasta integrale”: per la pre-vigente legge 580/1967 la pasta si poteva fare solo con semola e semolato, chi utilizzava la denominazione “pasta” per un prodotto con ingredienti diversi era punito con l’ammenda fino a due milioni (che nel 1967 erano un bel po’ di soldi).
Cosa facevano i pastifici?
Producevano ugualmente spaghetti, fusilli e sedani integrali, ma li etichettavano come “specialità alimentare a base di sfarinati integrali di grano duro”, guardandosi bene dal far riferimento a “pasta”, proprio come oggi ci si guarda bene dall’etichettare come “yogurt di soia”, ricorrendo a “bevanda fermentata a base di soia” o qualcosa del genere.
Il bambino allergico al latte vaccino si sentirà “diverso” e discriminato perchè non può mangiare lo “yogurt” come tutti gli amichetti, e deve intingere il cucchiaino in una “bevanda fermentata a base di soia”?
Non lo so, non vorrei, però le norme che abbiamo sono queste.
A tecnici dell’agro-alimentare che le aziende consultano per avere una rassicurazione sulla loro conformità alla legge, a gente abituata a calzare stivaloni e a pestar letame nelle stalle e a indossare camici usa e getta in tessuto non tessuto quando entra in uno stabilimento (se fosse stata più portata alla psicologia infantile avrebbe indirizzato diversamente i propri studi) si può legittimamente chiedere di consigliare le aziende secondo scienza e coscienza, sulla base della normativa vigente.
Non gli si può chiedere di farsi carico del disagio per esser privato di un consumo conviviale di yogurt da parte di un bambino intollerante al latte, non è quel che gli chiedono le aziende e su questi aspetti non ci si può attendere sensibilità dall’Ispettorato repressione frodi o dal Corpo forestale dello Stato.
La legge 283/1962 (disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande) prevede che “quando dall’analisi risulti che i prodotti non corrispondono ai requisiti fissati dalla legge” scattino procedure di denuncia; è vietato offrire in vendita sostanze alimentari adottando denominazioni improprie o proporre alimenti “non genuini” cioè con composizione diversa da quella codificata.
Questo è il parere che mi sento di dare come tecnico.
Dopo di che, se vuoi parliamo anche d’altro, ma la discussione qui era tecnica.
Non è colpa vostra se noi siamo celiaci, ma la realtà è che si continua a rimarcare le differenze a tavola con la scusa di difendere la tipicità di una ricetta.
Sono più di 35 anni che l’AIC è sul campo con diverse attività,iniziative e progetti che diffondono informazioni sulla dieta s.g. e non per moda ma per necessità.
Vorrà dire che non è stato fatto abbastanza.
Ricordate le differenze accomunano e non dividono.
Penso che più volte sia stato chiarito questo punto, nessuno sta rimarcando le differenze sulla persona, si vuole semplicemente tutelare la tradizione di un prodotto.
Adesso il panettone vi sembrerà poca cosa, ma pensate a tutti i nostri prodotti DOP, il concetto è uguale.
Chiamereste un prosciutto ” prosciutto di parma DOP” se non risponde a tutte le caratteristiche? io no.
Sareste favorevoli alla modifica del disciplinare per permettere l’utilizzo di cosce estere surgelate? io no.
LA vera discriminazione del s.g. non è il panettone, e che i prodotti vengano riempiti di additivi chimici, che abbiano elenchi ingredienti chilometrici, che costino 30% in più perchè anzichè il frumento c’è la farina di riso e perchè tanto volenti o nolenti la scelta chè c’è è quella di comprare quel prodotto senza alternative.
Io spenderei le mie energie per questo più che per avere un “nome” per festeggiare il natale.
Mi sento di dover sensibilizzare l’autore su un dato da lui completamente trascurato. Quando si parla di celiaci si parla soprattutto di bambini. In Italia la prevalenza di bambini celiaci è pari all’ 1,1% contro lo 0,7% degli adulti. Quindi i consumatori di prodotti senza glutine sono perlopiù bambini. La necessità sociale di fornire prodotti della tradizione culinaria senza glutine è ovviamente legata ai desideri di questi bambini che subiscono al pari dei loro coetanei “sani” le pressioni di pubblicità e tradizione. Le famiglie fanno un grosso lavoro per cercare di gestire l’alimentazione dei figli facendo fronte nel miglior modo possibile alle loro richieste. Alcuni bambini celiaci vivono con disagio la loro condizione, in particolare quando si relazionano con i loro coetanei. Immagino che anche lei da piccolo, almeno una volta, abbia scambiato la sua merendina con quella del compagno di banco; per far un esempio banale. Avere sul mercato il pandoro Bauli senza Glutine significherebbe per questi bambini anche poter festeggiare il Natale a scuola come tutti gli altri portando in classe un prodotto che tutti i loro coetanei conoscono e non un dolce preso in Farmacia diverso da tutti gli altri. Prodotto che per questi motivi deve mantenere nome e packaging dell'”originale”. La dicitura Senza Glutine caratterizza già la diversità dalla ricetta originale. Come è per la mozzarella ad esempio: mozzarella per il prodotto ottenuto da latte vaccino e mozzarella di bufala per il prodotto ottenuto da latte bufalino. I disciplinari di produzione per le diversità delle materie prime e procedure non sono sovrapponibili eppure entrambe sono mozzarella.
Come appena commentato su https://www.linkedin.com/groups?gid=4687986.
Avendo l’unica accortezza di qualificarli come “prodotto dietetico”, dovrei poter quindi immettere sul mercato, a beneficio delle persone il cui processo di assimilazione o il cui metabolismo è perturbato:
Asiago (DOP, reg.CE n.1107/1996 e n.1200/2007), Fontina (DOP, reg.CE n.1107/1996, reg. UE n.93/2011), Gorgonzola (DOP, reg. CE n.1107/1996 e n.104/2009), Mozzarella di bufala campana (DOP, REG., ce n.1107/1996 e n.103/2008) e Parmigiano Reggiano (DOP, reg. CE n.1107/1996, n. 1571/2003 e reg. UE n.794/2011) SENZA LATTE
e
Coppia ferrarese (IGP, reg. CE n.2036/2001 e reg. UE n. 1440/2012), Pagnotta del Dittaino (DOP, reg. CE n.516/2009 e reg. UE n. 613/2014), Pane casareccio di Genzano (IGP, reg. CE n.2035/1997) (mi pare di ricordare che se ne occupasse l’amico Mancini, cosa ne dice?), Pane di Altamura (DOP, reg. CE n. 1291/2003) e Pasta di Gragnano (IGP, reg. UE n.969/2013) SENZA CEREALI CONTENENTI GLUTINE.
In questo modo contribuirei ad alleviare il disagio del consumatore allergico al glutine, che vedrebbe finalmente così sancito il suo diritto di consumare una PASTA DI GRAGNANO IGP (anche se prodotta solo con amido di mais, farina di riso, farina di mais, farina di sorgo, farina di grano saraceno, farina di lenticchie, mono- e digliceridi degli acidi grassi, inulina di cicoria e farina di semi di guar).
Allevierei i disagi del consumatore allergico al latte, che finalmente potrebbe anch’egli apprezzare con una bella caprese di MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA DOP (anche se prodotta solo con riso, agar agar, olio di cocco, farina di carrube, gomma di xantano, gomma arabica e aromi).
A ben vedere,però, anche l’indicazione “prodotto dietetico” (per non parlare di quella “di regime”, vagamente inquietante) è discriminante: segnala che si tratta di un alimento destinato a un’ “alimentazione particolare” e sottintende una disparità di trattamento…