![Tonno rosso Thunnus thynnus pesce d'acqua salata sott'acqua mare blu](https://ilfattoalimentare.it/wp-content/uploads/2023/12/tonno-rosso-Thunnus-thynnus-pesce-mare-pesca-Depositphotos_6947006_L.jpg)
C’è un pesce, nel Mediterraneo, che più di altri incarna l’assurdità del sistema globale della pesca e delle acquacolture: il tonno rosso o pinna blu (Thunnus thynnus, bluefin). Perché il Mare Nostrum ne è pieno, di esemplari sia selvatici che, soprattutto, allevati, ma quasi tutto quello presente viene pescato, allevato e poi esportato soprattutto in Oriente (in Giappone, Cina e Corea del Sud) e negli Stati Uniti. Ai mercati dei Paesi europei viene proposto quasi esclusivamente quello a pinne gialle, considerato meno pregiato.
Tonno rosso e allevamenti
E il sistema degli allevamenti, costituiti per far ingrassare i tonni rossi pescati molto velocemente, grazie e quantità enormi di pesci foraggio, per poi ucciderli e mandarli a migliaia di chilometri di distanza, sta diventando un problema per tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Di questa filiera “insostenibile” si sono occupati i giornalisti Marzio G. Mian, Nicola Scevola e Julia Amberger in un’inchiesta svolta in parte sul campo, soprattutto a Malta, con il supporto di Investigative Journalism for Europe e pubblicata sulla rivista Internazionale.
Un po’ di numeri
Secondo quanto riferiscono gli autori, ogni anno nel Mediterraneo vengono pescate 35mila tonnellate di tonno rosso. Si tratta di esemplari giovani, che pesano attorno ai 150 chilogrammi e che, nella loro permanenza negli allevamenti, arrivano a pesarne 250, cioè aumentano del 70% in soli tre-quattro mesi. E infatti le tonnellate di tono rosso esportate sono nettamente superiori a quelle ufficialmente pescate: tra le 45 e le 50mila. L’ingrasso viene reso possibile da 134mila tonnellate annue di pesce foraggio, cioè pesce azzurro come sardine, acciughe, sgombri, spratti, aringhe che arriva sia dallo stesso mare (ai tonni rossi va un terzo di tutto il pesce azzurro pescato nel Mediterraneo) che, con ogni probabilità, dagli allevamenti ad hoc situati in diversi paesi, altra autentica piaga del sistema degli allevamenti ittici intensivi.
![Tonni appena pescati appesi sopra un peschereccio, tonno rosso](https://ilfattoalimentare.it/wp-content/uploads/2019/10/tonno-tonni-pesca-peschereccio-AdobeStock_33778968.jpeg)
Il risultato è un impatto devastante: per ogni chilo di tonno rosso – questa la stima contenuta nell’articolo – occorrono 15 chilogrammi di pesce azzurro. Un valore decisamente più alto di quello di altri allevamenti come quelli di salmone che, di solito, sono attorno a un rapporto di uno a uno, o di poco superiore.
Il ruolo di Malta
C’è un paese che più di ogni altro, in Europa, guadagna da questo mercato: Malta. Nei mari dell’isola ci sono infatti 26 installazioni da ingrasso su un totale di un centinaio presenti nel Mediterraneo, che fanno capo a una centrale operativa situata a Marsaxlokk, villaggio di pescatori nella parte orientale. Da qui, secondo quanto riferiscono i giornalisti, ogni giorno salpano cinquecento tonnellate di pallet di pesce azzurro congelato, pari a trenta tir, per sfamare i tonni nelle gabbie collocate a una decina di miglia dalla costa. L’accesso è vietato e protetto da guardie armate. Le reti circolari sono però visibili dall’alto, e contengono complessivamente 20-25mila tonnellate di tonno rosso.
Secondo Tristan Camilleri, biologo e consulente per la Federation of maltese aquaculture producers “ogni anno nelle gabbie di Malta entrano circa tredicimila tonnellate di tonno. Nel 2022 ne sono stati venduti al Giappone per più di duecento milioni di euro”, cioè circa un terzo di tutto quello venduto in Giappone proveniente dal Mediterraneo. C’è un particolare che dà la misura della situazione. Sui banchi del pesce di Marsaxlokk il tonno rosso fresco (quei pochissimi esemplari che sfuggono alla filiera) è venduto per tre euro al chilo. Ma lo stesso tonno è venduto alle grandi aziende importatrici giapponesi, prima di tutte la Mitsubishi, che controlla il 40 per cento del mercato nipponico, a 32 euro al chilo. Per queste cifre quasi nessuno, sull’isola, vuole rinunciare al business.
Un sistema crudele
C’è poi l’aspetto legato alla crudeltà. Gli autori, grazie alla complicità di due sub, nella scorsa estate sono riusciti a introdursi in una gabbia piena di esemplari di peso compreso tra i 200 e i 400 chili, nel momento in cui veniva somministrato il pesce foraggio attraverso una condotta. Hanno così documentato in prima persona che, una volta terminato il pasto, i due sub, dotati di un fucile calibro 12, hanno sparato in testa a un esemplare della taglia giusta, attorno ai 300-320 chili.
Quindi lo hanno imbragato e issato a bordo della nave appoggio con un argano, pronto per iniziare così il lungo viaggio verso i mercati orientali. L’operazione si è ripetuta una decina di volte nel giro di mezz’ora. Anche se la soppressione tramite colpo di fucile è meno crudele di altri metodi, ciò che colpisce, in queste gabbie, è la densità degli animali, che arrivano a essere lunghi anche due-tre metri e che, per natura, nonostante gli aculei, sono estremamente timidi e mansueti.
![Filetto di tonno crudo su un tagliere con alcune fette tagliate](https://ilfattoalimentare.it/wp-content/uploads/2017/05/tonno-fresco-crudo-filetti-pesce-Fotolia_124009702_Subscription_Monthly_M.jpg)
Il ruolo dell’Iccat
Una delle criticità maggiori è comunque quella al depauperamento delle scorte di pesce azzurro del Mediterraneo, arrivato a livelli di guardia. Per cercare di regolamentare il settore, nel 2006 l’International Commission for the Conservation of Atlantic Tuna o Iccat, con sede a Madrid, aveva imposto limiti ai quantitativi di pescato, ma da quando ha autorizzato le vasche da ingrasso è stata messa sotto accusa, soprattutto per l’inefficienza dei controlli. Secondo i giornalisti, alcuni suoi ispettori sarebbero stati accusati di essere complici dei produttori e di aver incassato denaro per manipolare i conteggi e, in generale, di aver autorizzato una pratica intensiva insostenibile, come accade con gli animali allevati a terra.
Di recente, poi, nel 2023, l’Iccat ha preso un altro provvedimento che si è attirato critiche molto accese, perché ha fatto rientrare nei suoi parametri crescite che, in natura, avrebbero del miracoloso, come ha denunciato Juan José Navarro, esponente del gruppo di allevatori spagnoli Balfegó, ritenuti tra i più corretti a livello europeo.
Un sistema sostenibile?
In natura, il tonno rosso impiegherebbe anni a raggiungere la taglia ideale per i mercati orientali. Se ci riesce in soli tre-quattro mesi è perché viene ingozzato di pesce azzurro, con conseguenze catastrofiche per tutto l’ecosistema del Mediterraneo, e un’impronta ambientale che non ha nulla da invidiare a quella degli allevamenti di bovini, compreso l’inquinamento delle acque prospicienti le gabbie, che danneggia gravemente il turismo. Tutto questo oggi è messo in discussione dalla scarsità di pesce azzurro disponibile, sfruttati anche per la produzione di farina e olio.
Inoltre, i tonni pescati per essere allevati vengono trasportati vivi per tutto il Mediterraneo, con perdite che possono arrivare anche al 40%, perché sono pesci delicati. Tra l’altro, i pesci morti in teoria andrebbero riportati alle autorità e sottratti alla quota concessa a ciascuna imbarcazione, ma questo non accade mai. Le reti, poste a 500 metri dal peschereccio, vengono tagliate per far fuoriuscire i tonni morti e poi richiusa. Risultato: nessuna traccia dello spreco.
C’è infine l’aspetto legato alle emissioni, perché tra allevamento e trasporto, l’impronta di CO2 è elevatissimo. Secondo il Wwf – si legge nell’articolo – allevare un chilo di carne di tonno rosso produce circa 10,6 chili di anidride carbonica equivalente. La stessa quantità di tonno pescato con reti a circuizione e semplicemente refrigerato, invece, genera circa 2,4 chili di anidride carbonica equivalente, cioè quanto un avocado.
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Giornalista scientifica