Stessi ingredienti nelle stesse formulazioni, scarse indicazioni sulla filiera in etichetta e difficoltà a risalire al ‘produttore’ al di là del ‘distributore’. Sono condizioni attualmente condivise dalla maggior parte delle marche ‘minori‘ di cibo per animali, che suscitano perplessità nei consumatori proprietari di animali da compagnia. Per fare chiarezza su questo aspetto del pet food abbiamo chiesto all’avvocato Dario Dongo, esperto di diritto alimentare e fondatore di GIFT (Great Italian Food Trade).
Marchi diversi, stessa ricetta per il pet food
Marchi diversi, con packaging, prezzi e strategie di marketing diversi e un differente posizionamento sugli scaffali dei supermercati inducono il consumatore a dare per scontata l’effettiva differenza tra i prodotti offerti e a orientare le proprie scelte d’acquisto verso quello che (non sempre a ragione) ritiene migliore. “Tuttavia – spiega Dario Dongo – questa diversità può essere solo apparente, poiché in non pochi casi le stesse industrie realizzano prodotti di largo consumo (quali ad esempio alimenti e bevande, cosmetici, dispositivi medici, prodotti per la cura della persona e della casa, pet food) con identiche materie prime e processi di fabbricazione, salvo poi confezionarli con marchi diversi, propri e della grande distribuzione organizzata”.
Può quindi accadere che grandi aziende vendano lo stesso prodotto con un packaging diverso e prezzi diversi, ovvero che sia la grande distribuzione organizzata a definire il disciplinare del prodotto a proprio marchio (per esempio composizione e caratteristiche delle materie prime, lavorazione, packaging) più o meno accattivante, affidandosi a diversi fornitori per la sua produzione (guidaprodotti.com, proiezionidiborsa.it).
Strategia commerciale lecita?
Si tratta di strategie commerciali molto diffuse, che non comportano rischi per la sicurezza ma sollevano dubbi sulla trasparenza delle aziende da parte dei consumatori più attenti. “Dal punto di vista legale è tutto regolare, a condizione che l’operatore responsabile dell’informazione al consumatore, vale a dire il titolare del marchio con cui l’alimento viene commercializzato – sia esso il produttore o il distributore – riporti in etichetta il proprio nome o ragione sociale (non anche il solo marchio) e indirizzo. Oltre al Paese di origine, laddove la sua omissione possa indurre in errore il consumatore”.
Anche nel settore dei mangimi e del pet food, “il soggetto responsabile dell’etichettatura è l’operatore del settore dei mangimi che immette per primo il mangime sul mercato o, se del caso, l’operatore con il cui nome o la cui ragione sociale il mangime è commercializzato” (regolamento CE n. 767/2009, articolo 12).
Una nota a sfavore della trasparenza del pet food, prosegue l’avvocato Dario Dongo, è rappresentata dal fatto che “i claim volontari più fantasiosi (e talora illeciti, come nel caso di ‘human grade’) vengono riportati in caratteri cubitali sul lato frontale delle confezioni, per attrarre i clienti, mentre le informazioni obbligatorie sulla composizione e il valore nutrizionale del prodotto sono spesso illeggibili. Il regolamento (CE) n. 767/09 (sull’etichettatura dei mangimi), a differenza del regolamento (UE) n. 1169/11, non prescrive infatti requisiti di altezza minima dei caratteri”.
La tracciabilità del pet food
Il codice a barre (come l’EAN, European Article Number, che è il più diffuso in Italia o il sempre più diffuso QR Code), è un valido aiuto per la tracciabilità di un prodotto, dal momento che permette di dedurne la provenienza semplicemente analizzando le prime cifre che lo compongono. “Tuttavia neanche questo è sufficiente per conoscerne con assoluta certezza le origini di ciò che si sta acquistando, perché un produttore può usare materie prime estere, commercializzare prodotti alimentari importati da altre nazioni o avere sede legale in un Paese diverso da quello che ospita gli stabilimenti, e quindi apporre un codice a barre diverso da quello che identifica il Paese di produzione”.
In questo contesto non mancano catene di distribuzione che stanno cercando di distinguersi, lanciando sul mercato linee di prodotti a marchio dedicati a cani e gatti che rinunciano a ricette e formulazioni uguali e standardizzate. Per farlo occorre selezionare i fornitori e collaborare solo con quelli disposti ad adottare specifiche linee guida (dalla scelta delle materie prime al bilanciamento degli ingredienti) volte a differenziare l’offerta del brand di destinazione con prodotti ad hoc.
Sicurezza garantita
In ogni caso, “poiché proprio come avviene per il cibo umano, anche per gli alimenti per animali da compagnia esistono una serie di regolamenti europei che puntano a garantire i più elevati standard di igiene, sicurezza e qualità in tutte le fasi di produzione e commercializzazione, a cui i produttori di pet food devono sottostare, non esistono particolari problemi in termini di qualità e salubrità dei prodotti ‘sottomarca’ o realizzati secondo formulazioni standard, e anche a livello sensoriali, il discorso varia da un prodotto all’altro, da catena a catena e in base ai gusti personali”.
Tuttavia la scelta di rendere facilmente tracciabile l’intero ‘percorso di vita’ degli alimenti (dall’origine delle materie prime allo stoccaggio finale dei prodotti) è un segnale di trasparenza che aiuta le aziende a costruire una relazione di fiducia con i propri clienti. Un fattore che è sempre più importante nel determinare il successo di un brand rispetto alla concorrenza, anche nel settore del pet food, (un mercato che secondo il rapporto Assalco-Zoomark 2023 conta, solo in Italia, 19 milioni tra cani e gatti domestici e vale 6,4 miliardi all’anno).
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