La British Dietetic Association (Bda), l’associazione dei dietisti britannici, lancia l’allarme: troppe persone si autodiagnosticano qualche disturbo, malattia, intolleranza o allergia alimentare e agiscono di conseguenza, per esempio escludendo intere classi di nutrienti o ricorrendo a integratori e farmaci trovati in rete che, oltre a essere quasi sempre costosi, possono essere pericolosi per la salute. Il richiamo ha origine dai risultati di un’indagine commissionata dalla stessa Bda a YouGov, che ha coinvolto 2mila cittadini britannici, ai quali è stato chiesto se, loro o i parenti più prossimi, pensassero di avere qualche disturbo associato all’alimentazione, senza però averne mai avuto una conferma da uno specialista o attraverso specifici esami. Il risultato è stato molto chiaro: uno su due, ovvero il 49,5% dei partecipanti, ha risposto affermativamente.
In cima alla classifica delle malattie autodiagnosticate c’è la sindrome del colon irritabile, che il 20,2% degli intervistati pensa di avere. Ciò tuttavia non stupisce, perché il disturbo è realmente diffuso, presenta sintomi poco specifici ed è associato anche allo stress, e per questo è una delle prime cause cui si pensa di attribuire disturbi gastrointestinali di varia natura. Un altro grande tema è quello della carenza di vitamine e minerali: circa il 15% degli intervistati è convinto di essere in uno stato carenziale. Mentre al terzo posto si trovano, attorno al 10%, altri due grandi classici: le allergie alimentari (per esempio alle uova) e l’intolleranza al lattosio.
Quando poi si chiede quale sia l’origine di queste convinzioni, si capisce il perché dell’allarme dei dietisti britannici: più della metà (il 51,2%) dei partecipanti afferma di essere arrivato a quella conclusione dopo aver consultato internet. Il che, commentano gli esperti, non sarebbe un grande problema, se i siti consultati fossero affidabili (per esempio quelli del Servizio sanitario nazionale o delle società scientifiche). Purtroppo spesso non è così e i siti visitati non hanno alcuna attendibilità. Ma quasi sempre – e questo dovrebbe essere un campanello d’allarme – propongono, come soluzione, di acquistare qualcosa, per esempio i test domestici per la diagnosi, di cui ne esistono innumerevoli. Oltre a essere potenzialmente molto costosi (quelli a base di immunoglobuline per allergie e intolleranze arrivano facilmente a centinaia di euro), non c’è modo di verificarne affidabilità e qualità, e per questo non dovrebbero (quasi mai) essere acquistati e considerati attendibili a priori. Anche perché il cliente, in seguito a un esito positivo, può decidere di eliminare senza alcuna ragione intere categorie di alimenti come, per esempio, tutti quelli che contengono il glutine o il latte vaccino, rischiando di trovarsi davvero in uno stato carenziale o comunque di perdere classi di nutrienti fondamentali. C’è poi il problema delle diagnosi errate, che oltre a non risolvere possono sviare l’attenzione da quelle vere: se è presente una malattia come la celiachia o un tumore, il ritardo diagnostico può avere conseguenze serie.
E poi, naturalmente, c’è l’immenso regno degli integratori e dei rimedi miracolosi, la cui composizione non è sempre chiara, la cui qualità è tutt’altro che controllata e la cui efficacia è tutta da dimostrare, sempre che non contengano sostanze potenzialmente pericolose come impurità oppure estratti vegetali o animali tossici.
Se tutto questo si applica ai bambini, ben si comprende perché anche i dietisti pediaatrici siano preoccupati: gli effetti di uno squilibrio nutrizionale in un organismo in crescita, anche in assenza di malattie, possono essere davvero rilevanti, e per questo nessun genitore dovrebbe prendere iniziative che non siano condivise con gli specialisti. Tra l’altro, decidere che il proprio figlio non può mangiare certi alimenti ha anche conseguenze emotive, psicologiche e sociali, derivanti dal senso di diversità o di esclusione che, in bambini e adolescenti, sono molto più accentuate rispetto a quanto non accada quando la personalità è più strutturata. E questo, a sua volta, può portare, magari qualche anno dopo, a un rischio maggiore di disturbi del comportamento alimentare.
Per adulti e bambini, l’iter non può quindi che essere uno: in caso di sintomi, chiedere consiglio al medico o al pediatra e, in caso di diagnosi, rivolgersi a specialisti della nutrizione (che in Italia possono essere medici specialisti in scienze dell’alimentazione, biologi nutrizionisti o dietisti), per mettere a punto un programma personalizzato e basato sulla condizione generale della persona. Purtroppo, c’è ancora molta strada da fare per convincere le persone a seguirlo: sempre secondo il sondaggio, quando si pensa di avere un disturbo associato a ciò che si mangia, ci si consulta con un amico o conoscente nel 23,5% dei casi e ci si rivolge solo a uno specialista solo nel 15% dei casi, e non per mancanza di fiducia. Infatti, il 73% pensa che, se fosse facilmente accessibile (per esempio se fosse nello studio del medico di base), consulterebbe volentieri un esperto in nutrizione, perché sa che troverebbe consigli attendibili.
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Giornalista scientifica