carne bistecca

donna mangia carneCarne? Mangiamone meno e meglio. Mangiamo carne di miglior qualità, in modo più razionale con un minore impatto sull’ambiente e salvaguardando il benessere degli animali.

 

La proposta viene da uno dei paesi al centro dei recenti scandali alimentari, la Gran Bretagna. Il Food Ethics Council – un’organizzazione indipendente che si batte per una produzione alimentare sana e sostenibile dal punto di vista ambientale – e il WWF inglese hanno elaborato sul tema del consumo di carne un corposo rapporto che analizza la situazione sotto ogni punto di vista. Il dossier analizza l’impatto ambientale, la perdita di biodiversità e i temi più strettamente legati alla salute umana, con riguardo sia ai paesi ricchi, dove il problema principale è l’obesità, sia a quelli poveri, dove a causare allarme è la malnutrizione.

 

ragazzo hamburgerIl rapporto parte ovviamente dalla situazione inglese, dove la carne maggiormente consumata è quella di pollo e più della metà dei consumi riguarda alimenti pronti o precucinati, come affettati, hamburger, salsicce o pasticci. Superano però i confini nazionali le indicazioni che il rapporto fornisce e che puntano a conciliare gli interessi dell’ambiente con quelli di consumatori e produttori.

“Riconoscere la carne come un alimento di qualità, – si legge nel rapporto, – porta a rispettare gli animali da cui proviene, i produttori e i distributori che ce la forniscono, e soprattutto induce a sprecarne meno”.

 

Il tema della salute è il primo affrontato dal documento. Per contenere il consumo di sale e grassi saturi – suggeriscono gli esperti – è meglio ridurre la carne rossa e quella conservata ed è anche consigliabile scegliere, quando possibile, carni biologiche o quanto meno pollame cresciuto a terra. Cè un altro aspetto da considerare gli animali nutriti con erba o foraggio, secondo alcuni studi forniranno un prodotto più ricco in nutrienti e acidi grassi omega 3.

 

Si innesca in tal modo una spirale virtuosa: gli allevamenti estensivi a terra riducono il consumo di energia e l’impatto sull’ambiente, migliorano le condizioni di lavoro degli allevatori e la qualità di vita degli animali. Al tempo stesso garantiscono ai consumatori un prodotto di maggior qualità e stimolano più attenzione verso le razze locali, contribuendo a tutelare la biodiversità.

 

Mucche in un pratoQuesto circolo virtuoso sarà possibile se i consumatori, grazie a un rapporto più stretto con il territorio e con gli allevatori, si convinceranno ad acquistare meno carne, ma di qualità e prezzo superiore, spingendo così gli allevatori a preferire produzioni scelte.

In tal modo, i consumatori finiranno anche per incentivare l’allevamento di animali autoctoni e di specie, come maiali e pollame, che hanno un minore impatto ambientale e  assicurano un buon risultato in termini di conversione di vegetali o granaglie in carne.

 

Limitare gli allevamenti intensivi potrebbe anche contribuire a recuperare risorse per l’alimentazione umana e a contenere i prezzi dei cereali, che in molte aree del mondo costituiscono l’alimento principale per le popolazioni.

Non bisogna infine dimenticare la lotta agli sprechi, quelli domestici e soprattutto quelli legati all’abitudine di consumare solo tagli pregiati. Si tratta di comportamenti che influiscono pesantemente sulle importazioni (attualmente in Gran Bretagna la richiesta di bacon e bistecche di maiale è più che doppia rispetto alla produzione nazionale).

 

Paola Emilia Cicerone

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Foto: Photos.com

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natalino
natalino
7 Marzo 2013 23:28

articolo interessante ma io non mangio carne e invito a fare altrettanto per incrementare i vantaggi ,per il terzo mondo, di cui parla l’articolo

Comunità Ondamica
9 Marzo 2013 13:18

Il rapporto è interessante e conferma quanto già evidenziato in altri documenti di società scientifiche, protezionistiche e altre istituzioni internazionali (per es. FAO).
Purtroppo l’analisi, come spesso accade, si limita agli effetti del consumo di carne sulla salute degli umani e sull’ambiente. Nonostante uno degli estensori del rapporto sia un soggetto che si ispiri a principi di “eticità”, non appare il punto di vista etico del rispetto della “vita animale” in quanto tale. Lo sfruttamento e le sofferenze delle vite animali sacrificate “in vita” e poi definitivamente in un macello, per produrre qualcosa di cui non ne abbiamo bisogno, è stranamente assente. E’ senz’altro vero che se gli animali sono allevati in modo intensivo, quindi senza terra, ammassati in densità altissime, senza rapporti sociali, con alta incidenza di malattie e di uso di farmaci, ecc., si creano le condizioni ottimali di malessere. E quindi che, al contrario, allevamenti estensivi, offrano un maggior benessere. Ma è doveroso non fermarsi qui. Dobbiamo valicare il confine dell’umano e spostarci verso quello del non umano. Qualunque sia la forma di allevamento praticata, l’animale, cosiddetto “da reddito”, è assimilato a un oggetto e a una macchina. “Cose” che hanno un proprietario che trae profitto dalla vendita delle loro secrezioni o parti anatomiche. Gli animali sono semplici codici, elenchi di numeri con tanto di marchi o sistemi più o meno invasivi di identificazione. Il secondo punto è che, a dispetto di ogni esistenza condotta nel “benessere”, alla fine della storia (della “carriera” come si dice) tutti finiranno a morire in modo oggettivamente violento tra le mura di qualche macello dopo spesso lunghi e sofferti viaggi. Non c’è distinzione tra le forme di allevamento più o meno sostenibili e etici. La morte è uguale per tutti e arriva contro il semplice desiderio di ogni “essere senziente” (come noi) di VIVERE. L’ultimo punto è che, nonostante le forme di allevamento più attente al benessere, proseguiamo nel perpetrare un modello di dominio di un soggetto forte (l’umano) su un soggetto debole (il non umano) in virtù di qualche presunta superiorità e diversità. E’ indubbio che la questione è molto complessa ma è giusto tentare di svilupparla fino in fondo. Senza dimenticare che dall’altra parte dei recinti, grandi o piccoli, ci sono esseri senzienti ai quali spetta, come afferma il Farm Animal Welfar Council, come minimo una “vita degna di essere vissuta”.