La pizza, dopo il riso, è l’alimento più mangiato al mondo e, insieme alla pasta, è la pietanza salata italiana più conosciuta, tanto che, secondo il Corriere della Sera, ‘pizza’ è la parola italiana più famosa a livello globale. Ma non solo: la pizza è anche uno dei prodotti enogastronomici più apprezzati dal mercato nazionale. Solo nel Bel Paese se ne sfornano in media 8 milioni al giorno e, secondo una nuova ricerca sul mercato della panificazione, realizzata da Cerved per Aibi (Associazione Italiana Bakery Ingredients), in Italia nel 2021 ne sono state consumate 2,7 miliardi (per un consumo pro-capite annuo di 7,8 chili). E il trend positivo, confermato nel 2022, continuerà nel 2023.
Specchio del buon andamento del consumo di pizza è internet, dove questa pietanza è la regina incontrastata del fenomeno ‘foodporn’. Secondo una ricerca condotta da Lenstore sui 100 cibi più popolari (fotografati, cliccati e condivisi) sui social, in Italia e nel mondo, proprio la pizza (con più di 22 miliardi di visualizzazioni su TikTok, 59,1 milioni di hashtag su Instagram e una media di 13,6 milioni di ricerche mensili su Google nel mondo e 450mila in Italia) è il primo in classifica e, secondo le previsioni, quello destinato a restare sul gradino più alto del podio fino al 2025 (sia nella versione classica sia nelle rivisitazioni gourmet).
Le ragioni di tale successo sono molte, a partire dal fatto che, secondo gli esperti, questo piatto è uno di quelli maggiormente in grado di rispondere alla necessità di ‘mangiare con gli occhi’ e di amplificare, grazie al suo aspetto, il desiderio di cibo elaborato dal cervello e l’esperienza appagante veicolata dal gusto. Adaccrescere il consenso nei confronti della pizza c’è l’attuale impegno di tanti pizzaioli a mantenerla un ‘piatto del popolo’, rinunciando il più possibile a ritoccare i prezzi, nonostante il rincaro dell’energia e il maggior costo delle materie prime (+25% per le farine, +20% per i pomodori, +10% per olio e latticini, +10-15% per salumi e prodotti ittici), imballaggi e trasporti.
Se i consumi di pizza, in tutte le sue forme, continuano a crescere, l’impasto più amato dagli italiani resta quello classico napoletano con cornicione alto, croccante fuori e morbido dentro (50%), seguito da quello romano basso e ‘scrocchiarello’ (21,5%), e dalla pizza in teglia (11,1%). Seguono la pinsa (7,2%) e gli impasti innovativi (10,1%) a base di farine multicereali, integrali, con miglio, farro e kamut o senza glutine, con semi di canapa o grani antichi. Invece, per quanto riguarda le modalità di consumo, la pizza al piatto resta la preferita (65%), ma una quota rilevante di mercato è consacrata all’asporto e alla consegna a domicilio; comparti che continueranno a crescere nei prossimi anni.
Anche la ‘geografia della pizza’ si sa trasformando, e se la Campania (con oltre 17mila pizzerie) si conferma patria di un prodotto riconosciuto Patrimonio Immateriale dell’umanità Unesco dal 2017, oggi è la Lombardia a registrare la maggiore crescita delle attività operanti nel settore (oltre 5.500 imprese artigiane). L’incremento è da correlare al ruolo sempre più rilevante assunto da panettieri, rosticcerie, gastronomie e bar e ai ristoranti con forno, ampliando l’offerta e le modalità di consumo di questo prodotto.
Paradossalmente, un potenziale ostacolo alla sopravvivenza e all’ulteriore diffusione della pizza napoletana è rappresentato proprio dal tentativo di tutelare l’autenticità di questo prodotto attraverso l’iscrizione nel registro delle specialità tradizionali garantite (Stg) ‘con riserva del nome’ e l’imposizione di un rigido disciplinare Dal prossimo 18 dicembre diventeranno operative le regole sulle materie prime, sulle ore minime di lievitazione (almeno 24), sulla modalità di lavorazione della pasta (con la tecnica dello ‘schiaffo a mano’), sulla farcitura. Ci sono regole sulla cottura (esclusivamente in forno a legna a una temperatura della platea a 485°C circa e della volta a 430°C circa), sull’altezza del cornicione di 1-2 cm e sull’uso di ingredienti di provenienza nazionale, come la Mozzarella di bufala campana Dop e la Mozzarella tradizionale Stg, i pomodori pelati e/o pomodorini freschi Dop e Igp, l’olio extravergine d’oliva e il basilico fresco.
Di fatto, proprio come il riconoscimento Unesco, il nuovo disciplinare protegge l’aspetto ‘folcloristico’ della pizza, esaltandone un’immagine anacronistica rispetto alle più pragmatiche pronunce dell’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), che per esempio sdogana l’uso del forno elettrico o a gas, perché più facili da installare e da utilizzare, e persino in grado di garantire una cottura “più salutare” grazie all’eliminazione degli idrocarburi prodotti dalla combustione della legna.
Se l’intenzione è quella di tutelare la vera pizza napoletana contro le contraffazioni e, al tempo stesso, di incentivare il mercato delle materie prime italiane di qualità, di fatto il disciplinare Stg avrà l’effetto di emarginare gran parte delle pizzerie napoletane (che rischiano sanzioni da 3mila a 14mila euro). La denominazione ‘pizza napoletana Stg’ si potrà attribuire solo alla margherita e alla marinara, escludendo le altre ricette con cui sempre più pizzaioli si impegnano ad arricchire e rivisitare la tradizione, in un mercato che oggi vale 15 miliardi.
In più questa ‘esclusività’ degli ingredienti potrebbe innescare un meccanismo di rincari e speculazioni, che spingerebbe ristoratori e pizzaioli a cercare nuovi fornitori e canali di approvvigionamento, ma anche nuovi mercati in cui delocalizzare la propria arte. In quest’ottica l’istituzione, in Giappone (nell’Università Ritsumeikan), del primo corso universitario di pizza napoletana, da un lato è motivo di orgoglio e conferma lo status raggiunto da questo piatto anche in Paesi lontanissimi dall’Italia per tradizioni gastronomiche (e in cui non si applicano le normative UE), dall’altro crea un precedente per un’ipotetica produzione intercontinentale della pizza napoletana.
Se così fosse, c’è da augurarsi che al lavoro svolto in questi anni da AVPN per promuovere e divulgare la cultura della pizza in tutto il mondo si affianchi un’attività di supervisione e tutela per la salvaguardia dell’autenticità di uno dei prodotti simbolo del Made in Italy.
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A parte la creatività di alcuni pizzaioli italiani …ricordo che una sera mi giunse sul tavolo ,una margherita a forma di cuore …………………………………………………..credo che la pizza più buona io l abbia gustata proprio nel 2017 in un antico locale di Roma provvisto di forno a legna Mi conquistò l impasto sottile ,croccante e scrocchiarello e l unicità complessiva del sapore che solo il forno a legna ,insieme alla qualità degli ingredienti sa conferire .. .
Era buonaaaaaaa da impazzireeee..!
Specialità tradizionale garantita (STG)
Il termine specialità tradizionale garantita, meglio noto con l’acronimo STG, è un marchio di origine introdotto dall’Unione europea volto a tutelare produzioni specifiche che siano caratterizzate da composizioni o metodi di produzione tradizionali. (da Wikipedia).
E’ l’ultimo dei marchi a denominazione (nel senso che è il meno ‘severo’) della serie ben nota (DOP, IGP, DOCG, DOC, IGT). L’importante è che si rispetti la procedura (disciplinare) di preparazione. Vedremo se dal fatidico 18 dicembre sarà obbligatoria, per esempio, la provenienza delle materie prime. (per quelle del pizzaiolo dovremo pazientare ancora un po’)
Mi sembra un po’ campata in aria tutta questa preoccupazione per l’aggiunta di “STG” al termine PIZZA…
Comporta il rispetto di tutte le norme eccetera, ok, se ne faranno una ragione i pizzaioli.
Ma il termine PIZZA senza aggiunte non credo sia né tutelabile né limitabile né brevettabile (come non lo sono PANE o ACQUA) e quindi si può continuare ad usare anche se la pizza è fatta con il farro, il burro, l’ananas, surgelata e resuscitata nel forno a microonde.
Esattamente come puoi fare il PANE col kamut, il lardo e il lievito chimico… basta che non lo chiami “PANE DI ALTAMURA”, perché ti va già bene se poi non vengono da Altamura a cercarti col randello.