Le etichette che riportano l’impatto ambientale di un alimento sono oggetto di studio da tempo e iniziano a essere introdotte in alcuni paesi o da singole aziende. La loro efficacia è emersa in molti studi, come ha confermato una metanalisi pubblicata nel 2021 su Environment and Behaviour, che ha dimostrato come, su 76 interventi possibili, almeno 60 fossero stati efficaci nei test condotti. Tuttavia, molte di queste ricerche condividevano un grande limite: erano state effettuate in situazioni che, pur simulando la realtà, erano artificiali o puramente teoriche, e non permettevano quindi di dimostrare se effettivamente, di fronte alla scelta di cosa acquistare, il consumatore si sarebbe comportato in modo più o meno virtuoso.
Per questo motivo i ricercatori dell’Università di Oxford hanno condotto un esperimento sul campo, coinvolgendo 13 mense aziendali che offrivano prodotti con ecolabel e 15 di controllo, e analizzando oltre 110mila pasti caldi venduti in 31 settimane. I bollini, in questo caso, erano stati realizzati in modo simile a quelli nutrizionali, e cioè con cinque colori, dal rosso al verde, e cinque lettere, da A a E, in base all’impatto ambientale (vedi foto sotto). Come riferito su Appetite i risultati non sono stati positivi dal punto di vista delle scelte, perché non hanno fatto emergere differenze statisticamente significative tra le mense aziendali scelte come controllo e quelle del test. I clienti, evidentemente, non hanno tenuto conto della segnalazione.
C’è stato, comunque, un effetto positivo: i bollini hanno fornito una visione chiara della qualità dei pasti venduti, circa la metà dei quali si era guadagnata una E, cioè era pessima. L’80% dei pasti caldi offerti (e non necessariamente venduti) aveva una lettera compresa tra la D e la E, lettera, quest’ultima, attribuita anche al 93% dei sandwich e al 63% degli snack salati. Al contrario, più del 70% degli antipasti e delle patate al forno si erano guadagnati una A. Tutto ciò suggerisce che probabilmente le etichette ambientali, da sole, non bastano, e devono essere inserite in un contesto più ampio di sensibilizzazione, che coinvolga anche ristoranti e aziende per modificare l’offerta, ma possono comunque aiutare a fornire elementi oggettivi di valutazione, e andrebbero introdotte per promuovere comportamenti più responsabili.
Ne sono fermamente convinti gli autori, che hanno anche preso parte a un altro studio, questa volta internazionale, pubblicato nelle stesse ore su PNAS, che affronta la questione da un altro punto di vista. In esso i ricercatori hanno attribuito una ecolabel a 57mila prodotti alimentari venduti dalla catena Tesco nel Regno Unito e in Irlanda. Per avere un criterio applicabile a tutti i cibi, hanno tenuto conto di quattro parametri: le emissioni di gas serra, il consumo di suolo e di acqua, e il potenziale di eutrofizzazione, inteso come il quantitativo di sostanze nutrienti (fertilizzanti, ma non solo) che, disperdendosi nell’ambiente, potrebbero alimentare un’abnorme proliferazione delle alghe nelle acque.
Gli alimenti peggiori sono risultati essere manzo o agnello, carni che hanno un’impronta ambientale enormemente più elevata rispetto al pollo, al pesce e in generale alle proteine di origine acquatica, che comunque sono a loro volta molto in alto nella classifica delle fonti alimentari più inquinanti. Un po’ a sorpresa, le bevande gassate e gli energy drink hanno ricevuto una valutazione ambientale ottima, che le ha poste al livello più basso tra i prodotti presi in considerazione, analogo a quello di alimenti di origine vegetale come riso e focacce. Integrando però queste informazioni con il Nutri-Score, alcuni paradossi come quelli delle bibite sono rientrati, mentre è apparsa evidente una realtà ben nota ai nutrizionisti: gli alimenti migliori sono anche quelli a impatto ambientale minore, meno lavorati e più nutrienti.
L’utilità di una valutazione di questo tipo, scrivono ancora gli autori, che tiene conto dell’impronta ambientale di tutto ciò che consente di arrivare a un certo prodotto, compresi la raccolta o l’allevamento, il packaging, la conservazione e il trasporto, è quella di fornire un parametro potenzialmente adottabile in tutto il mondo, oggettivo, che potrebbe aiutare a modificare le abitudini alimentari. Secondo gli autori, si tratta di calcoli che i produttori cercano di tenere nascosti, proprio per evitare che i consumatori ne siano consapevoli, ma che dovrebbero essere introdotti per legge. In questo modo si avrebbe anche un altro effetto positivo: si indurrebbero i produttori a modificare alcune filiere o anche singole ricette, per evitare di avere le valutazioni peggiori.
© Riproduzione riservata Foto: AdobeStock, Università di Oxford – Appetite
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Giornalista scientifica