Con la crescente attenzione al cambiamento climatico e l’impegno a cercare soluzioni per ridurre la diffusione in atmosfera di gas a effetto serra (soprattutto anidride carbonica e metano, che intrappolano il calore, provocando il riscaldamento globale e gravi danni all’ecosistema), anche gli allevamenti di bovini sono finiti nel mirino come attività umana inquinante. «La ragione principale – spiega Mauro Spanghero, docente di Nutrizione e alimentazione animale presso il dipartimento di Scienze agroalimentari ambientali e animali dell’Università di Udine – risiede nel fatto che i ruminanti liberano nell’ambiente il metano prodotto dai meccanismi fisiologici della digestione».
In realtà l’accusa mossa al settore zootecnico è “sproporzionata rispetto alle reali responsabilità ecologiche, non solo perché – prosegue Spanghero – gli allevamenti bovini contribuiscono solo in minima parte alla produzione di gas serra, ma anche perché non considera che i ruminanti (bovini ma anche ovicaprini e bufalini) sono animali d’allevamento con elevate prospettive di sostenibilità ambientale in quanto, in un mondo in continua crescita demografica, potrebbero nutrirsi prevalentemente di alimenti (foraggi e sottoprodotti) non competitivi con quelli dell’uomo».
Per misurare la quantità di metano emessa dai bovini vengono utilizzati ingegnosi dispositivi di monitoraggio come GreenFeed, un alimentatore high-tech automatizzato dotato di una cappa aspirante e 18 sensori che, mentre il bovino mastica, raccoglie in tempo reale i dati relativi alle sue emissioni di metano e CO2. «Grazie a questi test, condotti in laboratorio e nelle grandi aziende lattiero-casearie – illustra Spanghero –, è stato possibile dimostrare che i bovini negli allevamenti sono responsabili solo del 5-6% delle emissioni antropiche di metano, ma anche che il tipo di foraggi e mangimi somministrati agli animali hanno un ruolo chiave nel determinarne i livelli». I ricercatori si sono messi all’opera per cercare soluzioni per rendere quest’attività più sostenibile. Si è cercato di intervenire sui mangimi destinati all’alimentazione in stalla, per ridurre il metano che si genera come sottoprodotto della digestione dei bovini, a causa della fermentazione delle fibre presenti nell’erba e nei cereali da parte dei microbi presenti nel loro apparato digerente.
Secondo alcuni studi, contenere la produzione enterica e l’emissione di metano consentirebbe di perseguire un doppio obiettivo: limitare l’impatto del settore sull’ambiente e massimizzare l’efficienza nutritiva dei mangimi, aumentando fino al 6-8% la quantità di energia assunta dagli animali e migliorandone quindi le performance produttive. «Più il mangime è digeribile – spiega l’esperto –, maggiore è l’efficienza con cui l’animale riesce a trasformare in carne e latte i nutrienti in esso contenuti. Alla luce della necessità di ottimizzare la produzione di cibo per sfamare la popolazione mondiale in aumento, questo permetterà sia di produrre più carne e latte con meno risorse, sia di ridurre la competizione con i cereali destinati all’alimentazione umana».
Per ottenere questi risultati, gli studiosi hanno vagliato l’utilità di diverse molecole di origine naturale o sintetica che, aggiunte ai mangimi per bovini, potessero contribuire ad abbassare i livelli di metano nel rumine. Tra gli additivi testati (inclusi oli essenziali, tannini, grassi, alghe marine), il più efficace si è rivelato il 3-nitroossipropanolo (3NOP) che, secondo i risultati pubblicati dai ricercatori della Penn State University su National Academy of Sciences, sarebbe in grado di ridurre le emissioni di metano del 25-30% in sole 12 settimane.
Questo composto organico, solubile e rapidamente metabolizzabile, agisce come inibitore dell’enzima metil coenzima M reduttasi (MCR), cruciale nella fase finale della metanogenesi ruminale. Se aggiunto nell’alimentazione dei bovini, ha la capacità di limitare la formazione di questo gas nel rumine degli animali senza conseguenze sulla loro salute, sul sapore della carne, né sulla produzione o sulla qualità di latte e formaggi. Anzi, la riduzione della sintesi enterica di metano potrebbe rappresentare, in teoria, energia aggiuntiva per la lattazione, con effetto vantaggioso sulla produzione lattiero-casearia.
La sperimentazione del 3-nitroossipropanolo è iniziata fin dal 2014 nell’ambito dell’alimentazione delle pecore, ma solo recenti studi in vivo condotti da diverse università e pubblicati sul Journal of Dairy Science hanno permesso di valutare appieno l’efficacia di quest’additivo. In particolare, i ricercatori della Penn State University hanno testato gli effetti della somministrazione di varie dosi di 3NOP (da 40 a 200 mg/kg di sostanza secca ingerita) addizionate al mangime di 49 bovine ospitate presso il Dairy Teaching and Research Center, dimostrando come, a seconda della concentrazione, questa sostanza consente una riduzione delle emissioni di CH4 fino al 40% senza effetti collaterali. Per questo, dopo essere stato approvato in Cile e Brasile, nel novembre scorso il 3NOP ha ottenuto il via libera anche dall’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) e qualche giorno fa l’Ue ne ha autorizzato la commercializzazione in Europa.
Esistono altre strategie, oltre ai mangimi addizionati con il 3-nitroossipropanolo, per aumentare la sostenibilità dell’allevamento bovino: oltre al lavoro di miglioramento genetico per la selezione di popolazioni animali sempre più efficienti dal punto di vista alimentare, sono in corso diverse sperimentazioni per ridurre l’impatto ambientale dei sottoprodotti del metabolismo bovino (inclusi ossido nitroso N2O e ammoniaca NH3). Pare per esempio che, programmando con attenzione la vaccinazione dei vitelli e ottimizzando la loro alimentazione fin dallo svezzamento, sarebbe possibile correggere le fermentazioni del rumine e favorire, nella loro saliva, la produzione di anticorpi che sopprimono i microrganismi metanogeni. «Tutte queste sperimentazioni – prosegue Spanghero – rientrano nell’ambito della zootecnica di precisione, un settore promettente che consente di monitorare il benessere degli animali e di aumentare l’efficienza alimentare, di gestire in maniera automatizzata vari aspetti dell’allevamento e di migliorarne la sostenibilità».
Per ridurre le altre cause di inquinamento (in particolare da CO2) connesso alla produzione di carne e latte, aziende e istituzioni stanno facendo fronte comune, mettendo in campo iniziative e strategie condivise. Nel 2018 è stato per esempio presentato il progetto Life Beef Carbon, finanziato dalla Commissione europea e curato dall’Institut de l’Elevage francese, l’irlandese Teagasc, l’associazione spagnola Asoprovac e, per la parte italiana, dal Crea e dalle associazioni Asprocarne, Unicarve, ma anche con la partecipazione di circa 2 mila allevatori di bovini da carne di quattro Paesi europei.
L’obiettivo originario del progetto era quello di ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 15% in dieci anni attraverso una migliore gestione delle stalle, una più razionale distribuzione delle razioni alimentari e delle deiezioni animali, l’ottimizzazione dei consumi energetici e l’applicazione di metodi per il sequestro di carbonio efficaci ed efficienti. I risultati hanno superato le aspettative, tanto che l’impatto degli allevamenti italiani partecipanti allo studio si è ridotto dell’11% in cinque anni. «Ciò dimostra – conclude Spanghero – non solo che per rendere più sostenibile il settore dell’allevamento occorre agire su più fronti contemporaneamente e con azioni condivise, ma soprattutto che il mondo zootecnico si rivela sensibile alle problematiche ambientali ed esprime la la volontà di superarle con la conoscenza e il progresso scientifico».
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mi sembrano delle buone notizie che, congiuntamente a una riduzione dei consumi di carne e prodotti animali, potrebbe portare, nel tempo, ad un riequilibrio del sistema atmosferico. Mi rimane la curiosità di sapere se un’alimentazione normale per i ruminanti – cioè erba – unitamente a un maggior uso del pascolo favoriscono una riduzione dellle emissioni di CO2 e di metano.