Si chiama, in linguaggio tecnico, ortoressia, ed è l’ossessione per il cibo sano, privo di elementi nocivi per l’uomo e per l’ambiente. La sua incidenza è in crescita e in tutti i paesi più sviluppati, e anche se i manuali di psichiatria non la riportano ancora come vero e proprio disturbo del comportamento alimentare (DCA), secondo molti medici lo è a tutti gli effetti. Ma la diagnosi non si può fare perché, appunto, mancano criteri ufficiali.
Per sopperire almeno in parte un gruppo di psicologi britannici, dell’Università di York ha effettuato un’indagine su tutti gli studi pubblicati fino al 2018, e ha poi individuato alcune caratteristiche sempre presenti, esponendole in un apposito articolo pubblicato su Appetite.
Le persone che soffrono di ortoressia sono spesso perfezionisti, con tratti ossessivo-compulsivi, precedenti di DCA, con depressione, che hanno fatto continuo ricorso a diete, e hanno un’immagine corporea distorta, con il desiderio di raggiungere una magrezza ideale. Inoltre sono risultati essere fattori di rischio il vegetarianesimo e il veganesimo, così come l’abitudine di dedicare molto tempo ad acquistare e poi a preparare il cibo, proprio perché segni di un’attenzione eccessiva. Non ci sono differenze tra uomini e donne, né incidenze molto diverse nelle diverse fasce d’età.
Il fenomeno è in crescita, e molti esperti si stanno interrogando sulle sue motivazioni profonde, e su come uscirne. Nel 2017 il Guardian ha pubblicato un lungo e documentatissimo articolo nel quale alcuni esperti spiegavano che la fissazione per il cosiddetto Clean Eating (“Mangiare pulito”) è una risposta sbagliata alla chimica nella quale viviamo, pervasiva e vissuta come minacciosa per definizione. Il cibo sarebbe uno dei pochissimi ambiti nei quali l’uomo moderno potrebbe esprimere la propria autonomia, e per questo riverserebbe lì molte fobie, ossessioni e comportamenti distorti. Ma c’è di più. Come l’articolo spiega con numerosi esempi, l’ortoressia è stata causata ed è alimentata ogni giorno anche dalla pubblicità, che ha individuato da tempo in questa nicchia una vera miniera d’oro: dal momento che chi ne soffre ha una fragilità psicologica, è facile esercitare pressioni commerciali su queste persone.
Per questo i prodotti “senza”, sempre più numerosi (si pensi, per esempio, all’esplosione di quelli senza glutine, o a tutti quelli senza zucchero e così via), venduti a prezzi più elevati di quelli “con”, hanno un enorme successo, e poco importa se per renderli palatabili è necessario molto spesso aggiungere aromatizzanti, coloranti e altre sostanze tutt’altro che clean.
Oltre a questo, il marketing ha sfruttato molto bene l’idea positiva associata a un’alimentazione biologica e all’assenza (quella sì benefica) di pesticidi e fitofarmaci, esasperandola e stravolgendola fino a far passare il principio che qualunque tipo di lavorazione del cibo sia dannosissimo, e dimenticando così che la conservazione e la lavorazione – che ovviamente non devono essere eccessive – in pochissimo tempo hanno fatto aumentare la vita media di decenni.
Questo mercato, poi, è sostenuto da una gigantesca pubblicistica basata su libri che vendono decine o centinaia di migliaia di libri, soprattutto quando il filo conduttore è qualunque provvedimento o gesto che riconduca al pensiero della purificazione, della disintossicazione, del digiuno (come successo anche in Italia). Il fenomeno si sviluppa nei blog, nelle pagine Instagram di molti influencer (di solito ragazze giovani, carine e con fisici invidiabili, ma con curricula che nulla hanno a che vedere con lo studio e la competenza nell’ambito della nutrizione), oltreché negli studi di medici senza scrupoli, che consigliano privazioni nutrizionali talvolta pericolose senza una reale motivazione medica, e non di rado senza aver effettuato esami che aiutino a capire qual è la situazione della singola persona.
In molti casi, infine, il marketing riesce a far passare mode infondate come quella dell’olio di cocco, pieno di grassi saturi, o quella del sale rosa dell’Himalaya, che non ha nulla di benefico, o di certe alghe o sostanze le più varie, spacciate sempre come benefiche e soprattutto naturali.
Secondo alcuni nutrizionisti intervistati, per fortuna, anche se non sembra, questa fase è in lento declino, sostituita da un’altra nella quale a farla da padrone sarà la consapevolezza dell’importanza del cibo tanto per la salute quanto per il pianeta. La speranza è che abbiano ragione e che le informazioni corrette riescano ad averla vinta sulle spinte del mercato e sulle fake news. Nel frattempo, però, sarebbe auspicabile che l’ortoressia fosse definita meglio e che si fornissero ai medici strumenti adeguati per combatterla.
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Giornalista scientifica
Purtroppo i servizi marketing delle aziende che sfornano in continuazione versioni di alimenti “con” e soprattutto “senza”, ci marciano alla grande incoraggiando senza sosta comportamenti “ortoressici indotti” o comunque mode , fregandosene altamente delle leggi sull’etichettatura, complici gli enti di controllo spesso assenti, che se analizzassero certe etichette e tante pubblicità dovrebbero intervenire pesantemente , non con multe ridicole, ma con chiusura più o meno temporanea di attività produttive e di mercato, al pari del Giurì della pubblicità e l’Antitrust. Ciò procura gravi danni ai consumatori e provoca dannose distorsioni di mercato, se non addirittura danni alla salute.