Che cos’è, esattamente, l’impatto ambientale degli alimenti che mangiamo? Come si calcola? Quali sono i cibi peggiori, da questo punto di vista? Lo stesso alimento ha il medesimo impatto a tutte le latitudini? Secondo quanto scoperto dai ricercatori dell’Università di Oxford, la risposta a queste domande è meno scontata del previsto e riserva non poche sorprese. Gli scienziati, insieme a quelli dell’Istituto di ricerche elvetico Agroscope, hanno realizzato il più grande database esistente in materia, inserendo i dati di 40 mila agricoltori e allevatori e di oltre 1.600 società di trasformazione, confezionamento e vendita del cibo. In seconda battuta hanno concentrato le indagini su 40 tra gli alimenti più comuni. Come riferito su Science, gli autori hanno infatti scoperto che non esiste un unico impatto associato a un certo alimento, ma che tutto dipende dalle condizioni produttive locali di goni Paese.
Un esempio clamoroso è quello della carne di manzo da allevamento, che domina le classifiche come peggiore fonte di proteine, quanto a impatto ambientale. Tuttavia, se in certe condizioni produrre 100 grammi di carne bovina fa emettere 105 grammi di CO2 equivalente, e necessita di 370 metri quadrati di terreno, in altre i valori sono da 12 a 50 volte inferiori. A loro volta, però, anche i produttori più virtuosi consumano 36 volte la terra necessaria a produrre 100 grammi di piselli, ed emettono una quantità di CO2 che è sei volte quella degli stessi legumi. Osservando nel dettaglio la questione dei bovini, le contraddizioni appaiono ancora più macroscopiche. Un ristretto numero di produttori su scala globale (il 15% del totale) produce 1,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti e usa circa 950 milioni di ettari di terra (vedi foto sotto).
Una delle voci più sorprendenti riguarda l’acquacoltura, considerata spesso dai consumatori un’efficace soluzione all’eccesso di pesca realizzato nel mare. In realtà, il sistema assorbe enormi quantità di risorse: facendo un calcolo riferito a un chilo di pesce vivo, orate e branzini emettono più metano e gas serra rispetto ai manzi allevati nei capannoni.
Un altro caso interessante riguarda la birra. Una pinta prodotta in modo non attento può essere associata a emissioni triple e a un consumo di terra quadruplo rispetto ad altre birre più virtuose. Le stesse differenze si ritrovano quando si misura l’impiego di acqua, l’eutrofizzazione (crescita di alghe) e l’acidificazione indotte.
Considerando i 40 prodotti, emerge che il 25% delle aziende contribuisce in media per il 53% all’insieme degli impatti ambientali. “Ciò significa che i danni ambientali non derivano dalla richiesta di un certo tipo di cibo, ma in gran parte dal modo di produrlo, e anche che è necessario trovare soluzioni che possano essere adottate in realtà molto diverse e da milioni di allevatori e coltivatori che vivono e lavorano nelle situazioni più disparate” ha sottolineato Joseph Poore, del Dipartimento di zoologia dell’Università di Oxford, uno dei firmatari studio. È indispensabile favorire l’adozione di tecnologie più rispettose e, nel contempo, educare i consumatori a scegliere in modo responsabile, leggendo le etichette e in generale informandosi. Anche perché i produttori possono fare molto di più, certo, ma non possono scendere al di sotto di una certa soglia di consumi di risorse; per esempio, un litro del migliore latte vaccino consuma il doppio della terra ed emette il doppio rispetto alle bevande a base di soia.
Anche i consumatori possono fare la differenza apportando piccole variazioni alla dieta ma, soprattutto, mangiando meno prodotti di origine animale. Un calo del 50% di questa voce si tradurrebbe in una riduzione media (variabile a seconda delle situazioni) del 73% delle emissioni di gas serra e di 3,1 miliardi di ettari per quanto riguarda il consumo di terreno. Una riduzione del consumo di olio, alcol, zucchero e caffè di circa del 20% equivarrebbe a una diminuzione dei gas serra del 43%, includendo nel conteggio le produzioni peggiori dal punto di vista ambientale.
Il messaggio dello studio è chiaro: è importantissimo valutare gli impatti ambientali, ma bisogna farlo nel modo corretto, affinché ciò che si ottiene possa essere oggetto di ulteriori approfondimenti volti a individuare interventi efficaci per i produttori e di corretta informazione per i consumatori.
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Giornalista scientifica
Ottimo studio che però si ferma ai soliti elementi presi in considerazione, mentre ritengo interessante allargare l’analisi di confronto anche all’impatto ambientale dell’animale uomo.
Mettendo a raffronto le popolazioni di vari paesi maggiormente significativi ed il loro stile di vita: alimentazione quali/quantitativa, energia consumata, impatto residenziale abitativo, abitudini quotidiane, trasporti privati e pubblici, abbigliamento, acqua consumata procapite, ecc…
Magari scopriremmo che tra un indiano ed un americano c’è la stessa differenza d’impatto ambientale che è risultata dallo studio tra le lenticchie ed i manzi!
Quando leggo questi stuudi mi pongo sempre una serie di interrogativi che hanno più a che fare con il sistema intero che con la visione ristretta ad un solo elemento: come la questione del riscaldamento della Terra e il dimenticato innalzamento della temperatura che ci fu tra il IV (?, vado a memoria) e l’VIII secolo, tale per cui i vikinghi si trasferirono in Groenlandia (che vuole dire terra verde non perché è coperta di ghiaccio ma…) da cui rientrarono verso l’Islanda gli ultimi affamati e stremati nel XV secolo su una fragile barca.
Il footprint più pericoloso non credo che sia la Co2 che viene prodotto (di cosa si nutrirebbe la funziona clorofilliana dei piselli se non ci fossero anche gli animali? Forse dei 14miliardi di umani che avrebbero coperto l’intero pianeta e sostituito tutte le razze viventi, ovni e bovini inclusi visto che per fare spazio alle coltivazioni per gli umani siamo persino disposti a mandare in estinzione tali razze!) ma le strutture di coltivazione che dovrebbero trovare posto per questo folle piano! Folle quanto lo è l’atteggiamento inconsistente della programmazione del nostro futuro che continua a passare per la centralità della razza umana sul pianeta!
Ci preoccupiamo del ciclo naturale della respirazione ed emissioni di gas naturali dagli escrementi e ne facciamo della inutile filosofia per dar da mangiare e un posto visibile ad un ricercatore che fornisce dati magari anche corretti ma con un’interpretazione che lascia solo presagire un futuro da 2020 i sopravvissuti!
Ragazzi forse è bene riformare il concetto di cos’è uno studioso e cosa è intelligente e cosa no!
Forse è il caso che ci si occupi di più dei sistemi di condizionamento che surriscaldano le città che sono a loro volta sorgenti di calore irradiato e dell’energia che viene prodotta per fare in modo che noi si “stia bene” in estate e senza eccessivo stress termico.
Direi che siamo quasi alla follia!
le fonti dei problemi relativi agli impatti ambientali sono molteplici, ma dato che i nostri politici governanti non sembrano possedere capacità multitasking, allora ben vengano le considerazioni sulle priorità da affrontare, per cercare una soluzione al consumo della Terra. ma che si faccia presto, però.
Articolo ottimo ma pessimo nella sua contestualizzazione. Come ben dice Ezio, andiamo a indagare l’impatto ambientale del nostro stile di vita: quanto ci costa in termini ambientali l’uso (e talvolta l’abuso) di quei beni che riteniamo indispensabili (dai telefonini, che hanno tutti compresi i bimbi che sanno a malapena parlare, ai tanti televisori per famiglia, dalle automobili, sempre più grandi ed inutili, ai sistemi di riscaldamento o raffreddamento usati a sproposito, e si potrebbe andare avanti per un bel po’)? Non si può solamente prendersela colla produzione di cibo, ma questa va contestualizzata assieme a tutte le altre produzioni ed attività umane che contribuiscono al degrado ambientale. Altrimenti sembra solamente il solito appello di vegetariani e vegani intolleranti. Perché non tracciamo un diagramma di Pareto, in maniera da affrontare per primi i problemi più grandi?
Quando si parla di alimenti non è detto che s’intenda nutrienti, mangiare latte vaccino o di soia significa assumere aminoacidi di basso o ad alto valore biologico, la basso o alta biodisponibilità di minerali essenziali, per esempio il calcio. L’impatto ambientale dell’alimento andrebbe valutato sul piano della produzione quantitativa e qualitativa di nutrienti. Nell’articolo si cita: ..per esempio, un litro del migliore latte vaccino consuma il doppio della terra ed emette il doppio rispetto alle bevande a base di soia. Il latte vaccino apporta 3,3g/100 g di proteine con grandi quantità di aminoacidi essenziali ad alto valore biologico, quello di soia 2,9g/100g di basso e medio valore biologico, 13mg/100g di calcio a bassa biodisponibilità contro 119mg/100g ad alta biodisponibilità. 100g di bevanda alla soia apportano 32 kcal, contro 64 del vaccino. Vista così l’impatto ambientale della soia è parecchio maggiore di quello del latte vaccino. Sintesi, per ridurre l’impatto ambientale è necessario imparare a nutrirsi.
Forse per l’occidentale obeso ed ipernutrito a tutti i pasti merende comprese, serve il latte di soia più dietetico di quello animale, ma per l’indiano e l’africano denutriti, un buon bicchiere di latte vaccino ed ovino sono la giusta quota di nutrienti per una buona colazione.
Se ci nutriamo bene secondo reali necessità individuali, concordo che potremo ridurre significativamente l’impatto ambientale di noi umani sul pianeta.