Food blogger: le marchette esistono – dice l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria – ma è meglio archiviare. Una beffa per i consumatori. La replica dello Iap
Food blogger: le marchette esistono – dice l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria – ma è meglio archiviare. Una beffa per i consumatori. La replica dello Iap
Sara Rossi 12 Luglio 2017A un anno dalla pubblicazione della “Digital Chart”, il documento che stabilisce le regole da rispettare per il marketing online, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria propone l’edizione aggiornata di due degli articoli più importanti. La nuova versione vuole rispondere alle richieste di maggior trasparenza giunte da più parti nei confronti di blogger, celebrity e influencer che sponsorizzano prodotti tramite i propri profili social, spesso senza renderlo noto in maniera chiara e inequivocabile.
L’Istituto afferma che “per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati”, devono essere presenti delle espressioni ben precise nella parte iniziale del post, in modo da non essere annegate in lunghi testi o infinite sequenze di hashtag (#). In un post promozionale devono essere presenti parole come “Pubblicità/Advertising”, “Promosso da…/Promoted by…”, “Sponsorizzato da…/Sponsored by…” oppure “In collaborazione con…/In partnership with…”, che possono essere accompagnate o meno da hashtag (#). Quando invece il rapporto tra influencer o blogger e inserzionista si limita all’invio di prodotti gratuitamente, va scritto “prodotto inviato da…”.
La stessa cosa vale per i contenuti video, in cui la sponsorizzazione deve essere segnalata all’inizio o alla fine del filmato con espressioni come “… presenta” oppure “in collaborazione con …”. Anche il product placement, cioè l’inserimento in un video (magari di una ricetta) di un prodotto di uno sponsor, deve essere adeguatamente evidenziato da appositi disclaimer.
Il Fatto Alimentare, pochi mesi fa ha realizzato un dossier sul modo fumoso di fare marketing di alcuni food blogger (lo trovate qui e qui), chiedendo un intervento contro pubblicità mascherata e marchette di vario tipo che affollano la rete. La questione non è di poco conto. Da quando l’investimento pubblicitario si è progressivamente spostato dalla carta stampata e dalle tv su internet, le cifre in ballo sono diventate consistenti, e il fenomeno ha travolto le pagine dei siti di cibo e ricette.
Il problema è capire quando il food blogger realizza un filmato o una ricetta sollecitato da uno sponsor, e quando invece scrive liberamente senza vincoli di natura economica. La questione è delicata, perché il lettore ha il diritto di capire subito se un inserzionista ha contribuito in parte o totalmente a realizzare un post, una ricetta o un video. Si tratta di una regola valida per tutto il mondo dell’informazione che però nei siti di cucina viene spesso dimenticata.
A fronte della realtà che caratterizza il mondo dei food blogger e della volontà dell’Istituto di autodisciplina pubblicitaria di regolamentare la questione (come annunciato pubblicamente in un convegno tenuto poco tempo fa a Milano), la richiesta de Il Fatto Alimentare è stata archiviata. L’archiviazione ha il sapore della beffa perché l’Istituto in seguito al nostro esposto ha riscontrato “In diversi casi la poca evidenza degli accorgimenti volti a rendere palese la natura commerciale del collegamento”, e ha anche contattato i responsabili dei blog di cucina e delle aziende coinvolte contestando la violazione dell’articolo 7 del Codice.
La conclusione della vicenda è davvero imbarazzante. Visto che i blogger e le aziende hanno “dato pronto riscontro alla richiesta di indicare chiaramente fin da subito nei post del blog che si tratta di contenuti frutto di un accordo commerciale, attraverso apposite avvertenze quali: “post in collaborazione con…”, “sponsored by…”, “contenuto sponsorizzato da…””, il tutto è stato archiviato. Il comportamento scorretto individuato dallo IAP non riguarda solo famosi food blogger, ma anche aziende del settore alimentare che hanno deliberatamente condiviso l’idea di fare pubblicità in modo ambiguo ingannando il consumatore e violando l’articolo 7 del Codice.
Insomma le marchette c’erano, la violazione del codice pure, ma la richiesta di censura è stata respinta. La beffa raggiunge il paradosso se si pensa che il giorno dopo l’Istituto di autodisciplina pubblica una versione aggiornata della Digital chart che stabilisce regole stringenti per i food blogger, influencer e youtuber vari.
Non è la prima volta che lo Iap prende decisioni da cui traspare una certa difficoltà ad agire contro le aziende di marca. Lo schema è sempre lo stesso: a fronte di richieste di censura che riguardano nomi importanti del mondo alimentare su problemi “delicati”, la risposta è l’archiviazione supportata da argomentazioni risibili.
La questione dei food blogger e degli influencer è molto importante, visto che anche il garante delle comunicazioni (Agcom) riconosce l’esistenza di un problema, ma ammette di avere le mani legate. Per questo motivo, durante la discussione sul ddl Concorrenza, Sergio Boccadutri, parlamentare del Partito democratico, ha presentato un ordine del giorno che impegna il governo a valutare la possibilità di intervenire a livello legislativo per imporre a blogger e alle star dei social il massimo della trasparenza, come avviene per la pubblicità sulla carta stampata e in televisione.
Mentre proseguono le discussioni, potrebbero essere proprio i social network a stanare le pubblicità nascoste nei profili delle celebrity. È notizia di pochi giorni fa che Instagram, il noto social network di condivisione immagini della scuderia di Facebook, stia sperimentando un nuovo aggiornamento per segnalare agli utenti i post con contenuti pubblicitari. Il sistema utilizza l’espressione “Paid partnership with …”, immediatamente sotto al nome del profilo, in modo che l’avviso sia visibile a tutti. E tutti gli altri social network?
Riceviamo e pubblichiamo la replica dell’istituto di autodisciplina pubblicitaria
L’articolo, nell’informare sull’esito di una segnalazione de “Il Fatto Alimentare” all’Istituto in relazione ai messaggi pubblicitari non dichiarati contenuti in alcuni food blog, lascia intendere che IAP abbia archiviato i casi, nel senso che non sia intervenuto sugli stessi, né abbia adottato alcun tipo di provvedimento. L’articolo travisa totalmente il senso della nostra comunicazione che avete ricevuto a conclusione delle verifiche e degli interventi realizzati. L’Istituto, infatti sulla base delle segnalazioni, ha contattato i vari responsabili dei blog segnalati e le aziende che venivano pubblicizzate, esercitando nei loro confronti un’azione di moral suasion (proprio come quella svolta di recente dall’AGCM nei confronti di influencer e celebrity), anche nei casi in cui da parte nostra c’era un difetto di legittimazione ad agire, per invitarli a modificare i post introducendo elementi volti a chiarirne la natura promozionale, secondo le indicazioni contenute nella nostra “Digital Chart” www.iap.it/digital-chart/. Tale attività ha portato a un risultato, che vi è stato comunicato, ovvero che i diversi blogger hanno provveduto a modificare i post segnalati nel senso indicato. Una volta ottenuto tale risultato, perfettamente in linea con la nostra “mission”, che tutela i consumatori e introduce elementi di correttezza nel mercato, oltre che sensibilizzare sul tema gli operatori, i casi si sono conclusi, dunque sono stati archiviati in questo senso.
L’articolo invece, fin dal titolo, lascia intendere che nonostante l’Istituto abbia considerato fondate le segnalazioni e i blogger abbiano riconosciuto l’errore, tutto si sia concluso con un nulla di fatto. Segnaliamo peraltro che non vi è alcuna difficoltà di IAP a intervenire anche contro le “aziende di marca”, come da voi definite. Basta semplicemente dare un’occhiata sul nostro sito www.iap.it/il-diritto/ alle decisioni quasi quotidianamente assunte dagli organi autodisciplinari, oltre che ad una giurisprudenza lunga 51 anni, per rendersi conto che è esattamente il contrario.
Salvatore Pastorello 25 luglio 2017
Come ammette anche Pastorello l’articolo riporta fedelmente i concetti espressi nella decisione dello Iap. Nel testo diciamo che la nostra richiesta di censura, sebbene ritenuta corretta è stata “archiviata”, senza l’adozione di provvedimenti come scritto nella lettera che abbiamo ricevuto. Ribadiamo il concetto che il sistema dell’archiviare le richieste di censura, pur ammettendo una violazione delle regole, è una prassi dello Iap, come abbiamo potuto constatare in diversi casi negli ultimi anni e questo succede soprattutto con i grandi marchi.
© Riproduzione riservata
Le donazioni si possono fare:
* Con Carta di credito (attraverso PayPal). Clicca qui
* Con bonifico bancario: IBAN: IT 77 Q 02008 01622 000110003264
indicando come causale: sostieni Ilfattoalimentare. Clicca qui
giornalista redazione Il Fatto Alimentare