Pasta Barilla: il 25% del grano proviene da Francia e Canada. La telenovela di Coldiretti finisce male: il Corpo Forestale dice che non ci sono micotossine nel grano importato
Pasta Barilla: il 25% del grano proviene da Francia e Canada. La telenovela di Coldiretti finisce male: il Corpo Forestale dice che non ci sono micotossine nel grano importato
Roberto La Pira 4 Marzo 2016Il 25% del grano duro della pasta Barilla, è importato dalla Francia e da Nord America (leggi Canada). In genere questa materia prima costa di più rispetto al grano italiano ed è anche di ottima qualità. Il grano prodotto in Italia non è sufficiente e per questo l’azienda, come la maggior parte dei grandi pastifici, importa anche da altri paesi come Canada, Stati Uniti, Francia… Barilla che è probabilmente il più grande acquirente di grano duro al mondo con 1,4 milioni di tonnellate l’anno, cerca sempre di acquistare la materia prima negli stessi paesi in cui si trovano gli stabilimenti ma se il raccolto dovesse risultare cattivo o non sufficiente, l’azienda compra sul mercato internazionale. Queste precisazioni sull’origine della materia prima sono state rilasciate da Barilla alla Radiotalevisione Svizzera (RSI) poche settimane fa.
Per le aziende del settore non si tratta di una novità. Un documento recente, firmato dall’associazione di categoria che raggruppa i grandi produttori di pasta italiana (Aidepi) precisa che:
1. La produzione italiana di grano duro non è sufficiente a soddisfare le richieste dei produttori italiani di pasta. C’è un deficit di materia prima nazionale pari a circa il 30-40% del fabbisogno.
2. L’industria pastaia importa da sempre grano duro dall’estero. Non è una novità di questi anni. Il mito della pasta italiana si è costruito nell’Ottocento, proprio utilizzando grano di altissima qualità russo e canadese. Il Canada è tutt’ora il principale produttore ed esportare di grano duro al mondo, seguono USA, Australia, Russia e Francia.
L’altra notizia sul grano duro riguarda il nuovo episodio della telenovela la “Battaglia del grano”, girata in Puglia da Coldiretti, che racconta la storia di un gruppo di volontari armati di bandiere gialle che cerca di respingere le navi nemiche cariche di granaglie importate dall’estero. La puntata finisce con le immagini del Corpo Forestale alle prese con un prelievo di grano da un camion e Coldiretti che grazie a un kit speciale fa un’analisi rapida e in tempo reale scopre la presenza di micotossine. Le immagini fanno il giro dei tg e tutti sono soddisfatti dei risultati delle indagini. Abbiamo scovato il grano contaminato che arriva dall’estero. La nuova puntata della telenovela non è andata in onda nei tg e pochissime testate l’hanno raccontata. Si tratta dell’esito delle analisi fatte su quel campione dal Corpo Forestale dello Stato in un laboratorio vero senza le telecamere puntate addosso.
Il comandante Giuliano Palomba che ha eseguito l’esame ci ha confermato che nel grano duro prelevato non ci sono aflatossine mentre le quantità dei contaminanti sono meno della metà del valore massimo stabilito a livello europeo. Grano sicuro al 100%.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Una domanda però me la faccio: perchè il Corpo FOrestale si è prestato all’esame rapido in loco , poi smentito dalle analisi di laboratorio?
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Così facendo in primis si è battuta la grancassa della disinformazione e, in seconda battuta quello dei risultati in contrasto fra loro che creano solo confusione nel consumatore.
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Che poi, non ci sarà il solito che griderà al complotto delle analisi truccate?
Coldiretti è come un teatrino di marionette governato dai politici. È un peccato che tutte le persone credano a quel che dicono senza il beneficio del dubbio.Le forze dell’ordine purtroppo anche in questa occasione potevano valutare un po meglio il da farsi
I giornalisti dovrebbero fare meglio il loro mestiere
perché su una confezione di ” piccolini ” Barilla leggo che non si possono far mangiare ai bambini sotto i tre anni ?
Perchè le farrine utilizzate non rispettano i limiti molto rigidi relativi ai contaminanti previsti per i cibi destinati ai bambinii con meno di 3 anni . In genere i valori sono da 100 e più volte inferiori
Perche quei formati sono troppo grandi per loro potrebbero ingoiarli interi e soffocare.
Io da circa 6 anni non compro più prodotti di ditte che continuano ad usare oli come PALMA,COLZA,COCCO e nemmeno GIRASOLE;quest’ultimo per il fatto che ve ne sono di diversi tipi e,qualcuno di questi non lo tollero (mi dà gran fastidio allo stomaco e non so quale tipo sia). Da quando la soia è in gran parte ogm non la tollero più,mentr e appena finita la guerra ne ho presa tanta portata da marittimi. Non m interessa ch e dicano che il grano è sicuro,guardo tutto il resto;tanto pastifici buoni ve ne sono diversi.
La Barilla non si chiede come mai in Italia non si produce abbastanza grano per il fabbisogno nazionale?
Anche io sono agricoltore, Coldiretti ha solo fatto danni. Purtroppo molti miei colleghi prima di pensare a lavorare bene, pensano a lamentarsi, poi quando gli spieghi che lavorando in maniera diversa si può migliorare ti rispondono:” ah no eh! Troppo difficile”. Il mercato delle materie prime è europeo/mondiale, e noi siam qui pensando che qualcuno ascolti i nostri capricci… Non credo!
1) Perché non c’è abbastanza superfice?
2) Perché è una coltura povera non necessitando di particolari cure?
3) Perché gli agricoltori non riescono a fare “massa critica” offrendo quantitativi importanti che necessitano per standardizzare le lavorazioni?
4) Perché l’agricoltore preferisce seminare quello che vuole e non quello che serve, e quindi abbiamo varietà che non sono utili ai Molini
e gli agricoltori non si chiedono perché si importa grano che costa di più?
Quanta pasta esportano i produttori italiani? mi sembra che esportino un enorme quantitativo. Allora va rivisto il concetto che il grano prodotto in Italia non è sufficiente per la richiesta italiana. Io soddisferei prima di tutto con il grano italiano l’autosufficienza italiana e per le esportazioni userei grano straniero.
In questo modo la pasta fatta con grano straniero costerebbe di più!
Il discorso è che vendere ed esportare un prodotto che viene dall’Italia ha un suo fascino, perché allora basterebbe …fare i molini all’estero e usare il grano di quel paese. Non si comprende che se esportiamo il 40% della pasta questa fa da traino al pomodoro, all’olio, ai formaggi e al “paese” …caso mai prodotti con materie prime estere (dopo che si sono usate le nostre) ma “trasformati e lavorati in Italia”. Se si arriva come nella moda a valorizzare solo il marchio e a produrre all’estero, perdiamo quella parte di lavorazione in Italia e non saremo più deficitari di materia prima.
la risposta è semplice…. le migliori semole sono da sempre ottenute miscelando i frumenti duri, qualsiasi siano le loro origini, in funzione delle loro caratteristiche tecnologiche. Ed è per questo che i mugnai e i pastai italiani riescono a produrre semole e pasta di altissima qualità rispetto ai competitors stranieri.
Compravo Barilla quando non sapevo nulla di cibo genuino, di tipi di grano, di effetti dannosi delle farine ottenuti da grani tipici delle steppe; quando non capivo che l’agricoltura è vitale per la sopravvivenza dell’Italia, che nonostante tutto la materia prima italiana è la meno artificiale; quando ho deciso che voglio premiare con la mia spesa chi coltiva con amore della terra, chi produce con passione per il cibo, chi vende con rispetto dei clienti. Barilla non è nulla di ciò.
bravo.
Mi permetto di inviarvi questo articolo appena uscito, che mi sembra utile al prezioso dibattito
Da alcuni anni la produzione nazionale di grano duro oscilla intorno ai 4 milioni di tonnellate (fonte: ISTAT) ma, grazie soprattutto al consolidato gradimento nazionale e al crescente apprezzamento sui mercati esteri, l’industria trasformatrice della pasta è in continua espansione e ha bisogno di volumi ben superiori, stimabili ogni anno, in almeno un terzo in più della produzione nazionale, per un totale di circa 6 milioni di tonnellate. Ne consegue che il tasso di autoapprovvigionamento è in costante calo (62% nel 2014) con un conseguente aumento dell’import di materia prima, soprattutto dal Canada ( e dal Kazakistan NON DALL’UCRAINA, quello è g. tenero….). Le esportazioni di pasta, in continua ascesa negli ultimi anni, rappresentano un importante contributo al benessere economico nazionale (PIL) con un volume di affari di oltre 2 miliardi di euro. È il mercato comunitario (soprattutto Germania, Francia, Regno Unito e, più recentemente, Belgio e Olanda) che assorbe quasi la metà del prodotto, ma flussi in notevole crescita si registrano anche verso gli USA e la Russia (fonte ISMEA). Un po’ in tutto il mondo aumentano i consumi procapite di pasta nell’ambito di un sempre più ricercato equilibrio fra salute, gusto e facilità di preparazione che questo alimento, principale protagonista della dieta mediterranea, può sicuramente garantire.
Malgrado alcune distorte percezioni, veicolate soprattutto da fonti non controllate dei vari media a proposito della presunta pericolosità del glutine anche per la stragrande maggioranza della popolazione non celiaca, la pasta resiste e si conferma come una delle proposte alimentari di maggiore validità ed attualità. La composizione equilibrata dei suoi elementi nutritivi, il trascurabile contenuto in grassi saturi, il basso indice glicemico, il buon livello di proteine e un costo unitario fra i più bassi ne facilitano la diffusione non solo nel mondo occidentale, con la continua conquista di nuovi consumatori-estimatori.
Il frumento duro nazionale si è però giovato solo in parte di questo crescente e meritato successo internazionale della pasta. Infatti continua a perdere ettari di superficie coltivata nonostante risulti tra le poche colture vocate per i territori caldo-aridi dell’Italia centro-meridionale e, negli ultimi anni, abbia notevolmente migliorato le caratteristiche qualitative, da sempre denunciate insufficienti dall’industria trasformatrice.
Anche a causa di questa forte contrazione della cerealicoltura, in Italia si va accentuando una delle emergenze ambientali più gravi per il Paese: il consumo di suolo fertile, con una perdita stimata di circa 8 metri quadrati al secondo, che sino ad oggi ha raggiunto la spaventosa cifra di 2.2 milioni di ettari (fonte Ispra) senza che si delineino provvedimenti di reale contrasto. I terreni non più destinati all’attività agricola sono presto coperti da asfalto e cemento, edifici e capannoni, impianti fotovoltaici, servizi e strade, a causa soprattutto dell’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità (cd. urban sprawl) e quindi a maggior effetto distruttivo della continuità ambientale. Si va annullando, di fatto, la distinzione fra città e campagna, con la conseguente perdita irreversibile di aree produttive agricole malgrado il fortissimo e crescente deficit della bilancia agroalimentare nazionale . L’abbandono delle coltivazioni ha spesso determinato ripercussioni negative sull’equilibrio idrogeologico, con conseguenze anche drammatiche sulla popolazione, incidendo inoltre sulla fruizione di un paesaggio di particolare suggestione che caratterizza l’identità dei luoghi ed è imprescindibile per continuare a puntare su un turismo ad alta redditività diretta ed indiretta.
La forte contrazione dell’uso agricolo dei suoli ha coinvolto anche Regioni a spiccata vocazione cerealicola come la Toscana e la Sardegna, dove la diminuzione delle superfici agricole, in particolare quelle a frumento duro è stata particolarmente marcata. Nell’ultimo decennio le superfici destinate a grano duro sono dimezzate in Toscana (da 185.000 ha nel 2004 a 93.000 ha nel 2015 ) o addirittura ridotte di due terzi in Sardegna (da 97.000 a 35.000 ha ). La prima causa della minor propensione ad investire sul frumento duro anche in queste Regioni è ovviamente di natura economica. Con rese medie intorno alle 3.0-3.5 t/ha in Toscana e ancor più basse (2.0-2.5 t/ha) in Sardegna difficilmente si riesce ad avere un bilancio in attivo, visto che comunque i costi colturali oscillano fra i 1000 e 1500 €/ha e il prezzo della granella, alquanto volatile, raramente negli ultimi anni ha superato i 300 €/tonnellata scendendo anche a livelli intorno ai 150 €/t, assolutamente non remunerativi per la coltura.
Per niente trascurabili, né tantomeno criticabili, risultano perciò tutti quei sostegni al reddito promossi in sede europea o locale, sotto varie forme e vincoli, per limitare il pericoloso abbandono delle campagne, riconoscendo all’agricoltura l’insostituibile funzione di salvaguardia e presidio ambientale, idrogeologico e paesaggistico. Da non sottovalutare, inoltre, la funzione un po’ snobbata, ma che resta primaria, di approvvigionamento alimentare e, in particolare per il grano duro, di elemento centrale di una filiera agroindustriale di dimensioni e prestigio internazionale. Non bisogna infine dimenticare che l’attività agricola crea e mantiene posti di lavoro in maniera diretta e nell’indotto, in ambienti spesso privi di altre risorse concrete.
Dal punto di vista tecnico, tutti gli interventi mirati ad incrementare le rese unitarie ed i relativi ricavi della coltura del frumento duro rimangono di grande attualità insieme alla ricerca di una qualità della granella sempre più elevata che risponda alle esigenze della trasformazione, per spuntare prezzi maggiormente remunerativi. In questa strategia la corretta scelta varietale è un aspetto di primaria importanza in quanto può accrescere sensibilmente la produttività e/o migliorare la qualità del prodotto senza incidere in modo significativo sui costi di produzione.
Da oltre 40 anni grazie alla Rete nazionale di confronto fra varietà di frumento duro, l’Unità di ricerca per la valorizzazione dei cereali del CREA fornisce informazioni tempestive su adattamento e caratteristiche agronomiche, produttive, merceologiche, qualitative e di risposta alle principali avversità biotiche ed abiotiche delle nuove costituzioni varietali e di quelle più coltivate, indirizzando la scelta nei differenti areali di coltivazione, anche in funzione delle diverse esigenze qualitative delle successive fasi della trasformazione.
Grazie a queste prove collegiali, effettuate con protocollo sperimentale comune per più anni in più ambienti pedoclimatici, è possibile disporre di liste varietali aggiornate per i diversi areali di coltivazione. I risultati produttivi dell’ultimo quadriennio di sperimentazione in Toscana e in Sardegna sono stati sintetizzati .
Oltre alla resa produttiva, sempre maggior rilievo assume la caratterizzazione qualitativa delle varietà sia per garantire l’accettabilità delle partite con una migliore quotazione di mercato sia per la possibilità di inserirsi in percorsi programmati di filiera, con prezzi generalmente più remunerativi. A tale scopo i parametri qualitativi dei campioni delle prove sperimentali della Rete vengono determinati secondo metodiche standard . Per valutare le caratteristiche delle cultivar si fa riferimento alle classi previste dalle Norme UNI 10709 e 10940 (rispettivamente per cariossidi e semole) per peso ettolitrico, proteine della granella, Gluten Index e W. Per SDS, indice di giallo e qualità della pasta, in mancanza di una normativa ufficiale, sono stati definiti, sulla base di esperienze poliennali, 4 livelli di qualità, indicati con A, B, C e n.c.
I risultati produttivi associati a quelli qualitativi sono disponibili per un buon numero di varietà provate nella Rete nazionale dal 1999 al 2012: vengono presentati quelli relativi alle due Regioni oggetto di questa indagine. Per i caratteri produzione, peso ettolitrico e proteine viene riportato, per ciascuna varietà, un indice relativo al poliennio di prova, ponendo uguale a 100 la media generale di tutte le varietà in prova nel medesimo poliennio. Per i parametri qualitativi SDS, W alveografico, giudizio globale della pasta e indice di giallo viene riportato il dato medio poliennale ottenuto dalla varietà. Dall’esame di questi risultati è possibile estrarre informazioni utili per la scelta di varietà che possano permettere la miglior valorizzazione del territorio anche grazie alla conoscenza del profilo qualitativo delle cultivar, così da poter contare su un’offerta ben delineata e quindi più competitiva.
Tra gli elevati standard qualitativi richiesti dal mercato dei cereali uno dei più importanti riguarda l’eventuale presenza di contaminanti ambientali della materia prima tra cui le micotossine, metaboliti tossici per l’uomo e per gli animali prodotti da specie fungine tossigene largamente diffuse nelle colture cerealicole. I cereali e i prodotti derivati rappresentano la maggiore fonte di esposizione dell’uomo alle micotossine prodotte da Fusarium spp., tra cui la più diffusa è il deossinivalenolo (DON). In ambito UE tale micotossina è stata normata stabilendo un livello massimo nella granella del frumento duro non trasformata pari a 1750 µg/kg.
I campioni di granella della Rete nazionale vengono sottoposti a macinazione (granulometria: ≤1 mm) e sullo sfarinato integrale viene determinata la concentrazione di DON con metodo immunoenzimatico Ridascreen® DON (R-Biopharm), con limite di rivelabilità pari a 18,5 µg/kg. E’ ben evidente come il grano duro in Toscana e Sardegna, seppur in alcuni casi risulti positivo alla presenza del DON, risulti molto al disotto dei citati limiti di legge sia come livello medio ma anche e soprattutto nei valori massimi riscontrati nei diversi anni di prova in più località, fornendo perciò un’ulteriore garanzia sulla qualità della materia prima ottenibile in questi ambienti e quindi su un possibile ulteriore apprezzamento a livello dei consumatori finali e delle relative quotazioni di mercato.
non ho capito perchè la pasta fatta di solo grano straniero costerebbe di più sopratutto in considerazione del fatto che , costo del trasporto a parte, non mi sembra che le ns materie prime siano cosi a buon mercato
@Andrea , condivido in pieno !! complimenti per la “riflessione”
Se si producesse con tutta materia prima straniera …..all’estero (se ne fossero al corrente) inizierebbero a comprarne meno probabilmente. E’ anche probabile che la “produzione moderna” abbia bisogno di certe miscele per ottenere certi prodotti. Sarebbe bello poter confrontare i prodotti derivati da “miscelati con estero” e quelli non … cosi alla fine si potrebbe anche capire se effettivamente è una questione di qualità, di mancanza di materia prima PER poter ESPORTARE di PIU , o altro