Il mese scorso, le organizzazioni norvegesi, danesi e britanniche aderenti all’Ethical Trading Initiative (ETI) – un’alleanza formata da imprese, sindacati e ong, impegnata per il rispetto dei diritti dei lavoratori nel mondo – hanno pubblicato un rapporto che denuncia il massiccio sfruttamento degli immigrati nella industria del pomodoro nelle regioni del Sud-Italia e alcune infiltrazioni di tipo mafioso. L’ETI invita i rivenditori europei a controllare la loro catena di approvvigionamento, perché le condizioni di sfruttamento nella raccolta del pomodoro in Italia potrebbero compromettere la loro reputazione.
L’attenzione a questo problema nel Nord Europa è iniziata nel 2013, in seguito a inchieste giornalistiche in Norvegia e in Inghilterra, che denunciavano lo sfruttamento e le drammatiche condizioni di lavoro e di vita di cui erano vittime i lavoratori migranti, impegnati, in particolare, nella raccolta di pomodoro in Puglia. Nel 2014, l’export italiano di pomodoro verso Norvegia, Danimarca e Inghilterra è stato pari al 17.5% del totale, per un valore pari a 347 milioni di dollari. Ancor più significativa la quota italiana, rispetto al totale di pomodoro importato da Danimarca (71,7%), Inghilterra (60,2%) e Norvegia (48,5%). Da qui, l’attenzione e l’interesse di questi paesi verso il problema dello sfruttamento del lavoro irregolare in Italia. «Se non riusciremo a ottenere dei risultati tangibili su questo tema, saremo costretti a orientare i nostri acquisti verso altri mercati», ha dichiarato Bjart Pedersen di NorgesGruppen, il principale distributore norvegese, che detiene il 40% del mercato alimentare del paese.
L’ETI afferma che le aziende italiane trasformatrici di pomodori devono controllare con maggiore attenzione la filiera di approvvigionamento. Abbiamo quindi sentito cosa pensa Giovanni De Angelis, direttore dell’Anicav (Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali), che aderisce a Confindustria e rappresenta l’80% delle aziende italiane del settore della trasformazione del pomodoro, in particolare quelle del Sud Italia.
Direttore De Angelis, cosa pensa del rapporto dell’ETI?
Il rapporto è riuscito a dimensionare il fenomeno dell’utilizzo di lavoro irregolare in agricoltura nel comparto del pomodoro da industria. In particolare, i risultati dell’audit svolto da un’associazione di food retailer norvegesi, esposti nel corso della presentazione del rapporto, hanno rilevato che solo una minima parte della raccolta di pomodoro da industria viene effettuata manualmente e solo in presenza di particolari condizioni climatiche, come da sempre sostenuto dall’Anicav che, sulla base di dati empirici, ha evidenziato che l’utilizzo della raccolta manuale si aggira intorno al 20%.
Nel rapporto si cita anche una diversa stima della Flai-Cgil, secondo cui, mentre nel Nord Italia la raccolta meccanizzata è pari al 98%, nel Sud il 60% è manuale, cosa che favorisce lo sfruttamento dei lavoratori immigrati. Come sono possibili stime così diverse?
Le dichiarazioni, da parte di qualche sigla sindacale, in base alle quali la raccolta manuale rappresenterebbe il 60%, creano confusione ed imbarazzo negli osservatori e nei consumatori, e sono facilmente confutabili. In ogni caso, il rapporto fornisce suggerimenti operativi tendenti alla risoluzione del problema, che vanno nella stessa direzione immaginata da Anicav: promuovere un’etica del lavoro nelle diverse fasi della filiera, favorendo una certificazione etica delle imprese agricole e industriali del pomodoro.
Il rischio di alcune certificazioni è che si basano essenzialmente sulle carte, per cui dal punto di vista formale tutto può risultare in regola con i contratti di lavoro, anche se la realtà è un’altra. Pensa che possano essere comunque utili?
Quando parliamo di certificazione etica, pensiamo a certificazioni già esistenti, ad esempio la GlobalGAP, sapendo che questo non risolve il problema, anche se essere tenuti a seguire delle procedure di certificazione obbliga ad avere documenti, che costituiscono un punto fermo. Poi occorre una responsabilizzazione dell’intera filiera, in particolare delle catene di supermercati, affinché quando contrattano i prezzi d’acquisto ci sia una redistribuzione della redditività su tutta la filiera. Se la grande distribuzione vende un prodotto a un prezzo inferiore al suo costo industriale, qualche domanda bisognerebbe porsela. Noi pensiamo che sia necessario un insieme di azioni, che vada da un’opera di sensibilizzazione sull’obbligo di certificazione a una forte iniziativa di education della filiera.
Quando parla di grande distribuzione, si riferisce sia a quella italiana sia a quella estera?
Sì. È un atteggiamento abbastanza comune.
Sulla certificazione etica, chi decide?
Spetta al mondo agricolo certificarsi. L’industria ha la possibilità di chiedere ai fornitori un prodotto fresco certificato. Ma per fare ciò occorre un’azione concertata sinergica.
Detto in un altro modo, chi è più favorevole e chi fa più resistenza?
Le certificazioni costano e per farle bisogna impiegare più investimenti nell’organizzazione. Come Anicav stiamo lavorando con un’importante società di certificazione di qualità, per mettere a disposizione di tutti una sperimentazione che potrebbe arrivare a regime nel giro di tre anni.
Se si arrivasse a una certificazione etica del pomodoro industriale italiano, pensa che finirebbero le polemiche e le accuse segnalate nel rapporto dell’ETI sul caporalato e lo sfruttamento dei migranti?
Sicuramente sì. Al di là del bollino del certificatore, stiamo elaborando, con il supporto del mondo accademico, indici di riferimento sui costi di produzione, pur tenendo presente il tema dell’autonomia d’impresa.
Quali potrebbero essere i tempi per l’avvio della sperimentazione della certificazione etica?
Ci sono molte aziende aderenti ad Anicav disponibili a iniziare la sperimentare con alcuni fornitori già dalla prossima campagna di raccolta dei pomodori. Credo che ciò avverrà. Oltre alla certificazione delle imprese agricole, noi intendiamo arrivare anche alla certificazione delle aziende della trasformazione del pomodoro che aderiscono ad Anicav.
In conclusione, possiamo dire che il problema all’origine di tutto è il prezzo fissato dai supermercati che strozza il mondo agricolo?
Sì, anche se non vale solo nel caso del pomodoro, ma in generale. Tuttavia il prezzo non è l’unico fattore che incide sullo sviluppo della filiera: dimensioni limitate e frammentazione delle aziende trasformatrici diventano spesso un ostacolo alla crescita e alla competitività.
Quindi il signor De Angelis di Anicav ammette che lo sfruttamento dell’uomo (e della donna) nel settore della raccolta di pomodoro esiste ma che la colpa, contrariamente al pensiero comune, è della grande distribuzione. Non delle aziende agricole e dei caporali che per un maggior reddito di concerto trasformano i lavoratori dei campi in sub-umani!
Quindi Esselunga, Coop, Conad e gli altri sono i veri mandanti di questa forma di schiavitù. Sono loro i criminali “all’origine di tutto”, gli agromafiosi. E’ una accusa micidiale a cui sarebbe interessante seguisse una replica.
Comunque, adesso che sappiamo tutti la verità, cosa faranno le nostre autorità? E il mitico Caselli? E la lobby agricola? E il volitivo ministro Martina?
Quando avremo una “FILIERA ETICA COMMERCIALE” allora si farà sul serio !!! Esistono OP e INDUSTRIE CONSERVIERE che già lo fanno…BASTA VOLERLO E METTERCI LA FACCIA !!!
Viviamo in un’Europa delle banche dove non ci si preoccupa minimamente delle condizioni di lavoro dei cittadini migranti ed europei!Le aziende dislocano le loro attività in paesi sia della UE sia extraeuropei dove la manodopera costa poco e i lavoratori sono ridotti in condizioni che rasentano la schiavitù.Non è questo lo spirito in cui ho creduto parlando di UE!
Parole, parole al vento: certificazione di cosa, del caporalato, delle condizioni di vita dei lavoratori immigrati, dei ricatti commerciali dei grossisti?
Non conviene a nessuno regolarizzare la situazione, con il risultato finale di non essere più competitivi con i produttori vicini e lontani.
Se si volesse risolvere veramente il problema basterebbe una riunione presso il volitivo Ministro Martina, per fissare un prezzo minimo remunerativo, per il prodotto di qualità Made in Italy ed imporlo a tutta la filiera, come si sta facendo anche per il latte italiano.
Non che il nostro prodotto nazionale sia sempre il migliore di tutto il mondo, ma viene percepito ed apprezzato per essere di alta qualità e come tale acquistato e pagato dal consumatore finale ovunque.
E’ ora che questo maggior valore realizzato dai commercianti, venga ridistribuito a tutta la filiera ed in modo particolare a quei poveri cristi che ci mettono le mani per 12 ore al giorno, per 25 euro quando va bene.