Le tasse su cibo spazzatura e bevande poco salutari funzionano, ma solo quando sono pensate in modo da essere percepite dai consumatori, anche se probabilmente ci sono ancora margini per migliorare i risultati. Lo conferma uno studio appena pubblicato sul Journal of Preventive Medicine dai ricercatori della Dornsife School of Public Health di Filadelfia, che hanno verificato l’efficacia della tassa locale sulle bevande zuccherate.
Gli autori hanno analizzato i consumi di 900 abitanti di Filadelfia subito prima dell’introduzione della tassa di 1,5 cent a oncia (pari a circa a 9 centesimi di euro per lattina da 236 ml) e subito dopo, per due mesi. L’imposta è entrata in vigore il primo gennaio 2017 e ha fruttato oltre 78 milioni di dollari nel primo anno. I ricercatori hanno dimostrato che, rispetto agli abitanti di città vicine a Filadelfia (Trenton, Wilmington e Camden) non coinvolte nella tassazione, gli acquisti di soda sono diminuiti del 40%, quelli degli energy drink del 64%, mentre quelli di acqua sono aumentati del 58%. Non sono cambiati invece i consumi di succhi di frutta, zuccherati o meno, anche se colpiti da tassazione. Questo dato sembra suggerire che i cittadini abbiano recepito il messaggio relativamente alle sole bevande zuccherate gassate.
Questi primi dati, pur con tutti i limiti del caso (la rilevazione è stata breve ed è stata effettuata nel momento in cui l’aumento di prezzo è stato più sentito), indicano che una tassazione percepita può influenzare sensibilmente i consumi, anche se bisognerebbe sapere che cosa è avvenuto nelle settimane seguenti e nelle zone adiacenti. Altri studi condotti nei mesi scorsi hanno mostrato, in stati e città che hanno introdotto una sugar tax (tra i quali Berkeley, San Francisco, Albany, e Oakland in California, e poi Boulder, Colorado, Seattle e Washington), come le città confinanti hanno visto crescere gli acquisti di soda, probabilmente perché chi poteva andava comunque a comprarle oltrepassando il confine.
Per fare un confronto, è interessante analizzare un altro studio uscito negli stessi giorni, questa volta su PLoS One. Nell’articolo i ricercatori dell’Imperial College di Londra, insieme a quelli della Friedman School of Nutrition della Tufts University, hanno elaborato alcune stime sulle ipotesi di riduzione volontaria di sale (non conseguente quindi a una tassazione) elaborate dalla Food and Drug Administration nel 2016.
In esse si proponeva ai produttori di modificare la composizione dei cibi industriali per contribuire a ridurre gradualmente la quantità di sale assunto dagli americani (dagli attuali 8,6 g al giorno a 5 g, come indicato dall’OMS), ponendo obiettivi a breve termine (due anni) e a lungo termine (dieci anni). Le previsioni sono state fatte in base a tre scenari, dal migliore al peggiore: l’adesione al 100% degli obiettivi nei prossimi dieci anni, al 50% (sempre nei prossimi 10 anni) e, quello più pessimistico, un’adesione al programma al 100%, ma solo nei primi due anni dal varo dell’iniziativa, per poi essere abbandonata.
Il risultato è stato che, nell’ipotesi migliore, tra il 2017 e il 2036 ci potrebbero essere 450 mila casi in meno di patologie cardiovascolari, con un risparmio in termini di costi sanitari di circa 41 miliardi di dollari. Nelle altre due ipotesi ci sarebbero rispettivamente risparmi per 19 e 12 miliardi. In ogni caso, le misure diventerebbero presto costo-efficaci (già nel 2021), cioè offrirebbero vantaggi superiori alle spese necessarie per la loro introduzione, e produrrebbero un netto risparmio a partire dal 2031. Oltretutto, le stime riguardano solo le malattie cardiovascolari, ma la diminuzione del sale farebbe scendere anche l’incidenza dei tumori allo stomaco, con ulteriori benefici.
I due studi analizzano l’efficacia di approcci diversi che però al momento non si sono rivelati efficaci per difficoltà oggettive nell’applicazione. Per quanto riguarda il primo, un aumento di pochi centesimi del costo del cibo spazzatura potrebbe non reggere nel tempo, mentre per quanto il sale, molti dei documenti emanati negli ultimi anni dalle autorità sanitarie come linee di indirizzo non sono stati seguiti, oppure sono stati aggirati o recepiti solo in minima parte dalle aziende.
Lo studio per trovare mezzi efficaci per migliorare l’alimentazione e ridurre le patologie associate al cibo industriale continua, ma, nel frattempo in molti paesi, aumenta anche l’incidenza di malattie cardiovascolari e metaboliche, tumori e obesità riconducibili all’eccesso di cibo poco sano.
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Giornalista scientifica
Buon metodo per sensibilizzare i consumatori nel breve periodo seguente l’applicazione della tassa, ma che poi si perde tornando alle vecchie malsane abitudini istintive difficili da contrastare.
Altra difficoltà è come stabilire cosa sia “cibo spazzatura”, perché per i produttori non esiste ed in generale richiede una definizione dietetica piuttosto saggia, che tenga anche in buon conto i consumi occasionali, che potrebbero costare molto di più degli attuali.
Due esempi per tutti: le patatine fritte e la famosa crema di poche nocciole, molti grassi saturi e zucchero.
Se costassero il doppio ed anche il triplo, non ci sarebbe niente da recriminare, perché se ne farebbe un uso moderato, ma i produttori cosa ne pensano delle eventuali accise da applicare al loro fatturato?