Lettera aperta ai fratelli Barilla: scrivete in etichetta l’origine del grano duro utilizzato per la vostra pasta. Lo chiedono i consumatori
Lettera aperta ai fratelli Barilla: scrivete in etichetta l’origine del grano duro utilizzato per la vostra pasta. Lo chiedono i consumatori
Roberto La Pira 25 Luglio 2017Alla luce delle recenti decisioni prese con una certa imperizia dal ministero delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico che obbligano i produttori di pasta a inserire l’origine del grano in etichetta, Il Fatto Alimentare ha inviato questa lettera ai fratelli Barilla, chiedendo di dare il buon esempio aggiungendo queste informazioni sulla confezione, come viene fatto da anni per la pasta Voiello (marchio di proprietà Barilla). Solo così sarà possibile superare gli improbabili obblighi legislativi decisi dai ministri e anche le manovre lobbistiche che accusano i produttori di renitenza e che servono solo a screditare la pasta italiana. Un appello simile è stato inviato anche all’Aidepi l’associazione di categoria che raggruppa i più importanti marchi del settore.
Gentili Paolo e Guido Barilla,
da anni chiediamo alle aziende produttrici di pasta di indicare in etichetta l’origine del grano duro utilizzato. Lo abbiamo fatto nel 2014 dopo avere ricevuto da voi e da altre aziende come Divella, Garofalo, De Cecco, la Molisana… la conferma della necessità di utilizzare una parte di grano duro canadese, francese, australiano… per fare la “migliore pasta del mondo”. In questi mesi Coldiretti, insieme ad altre lobby di minore profilo, ha impostato campagne mediatiche contro il grano importato, lanciando accuse prive di riscontri che però hanno influenzato molto l’opinione dei consumatori. La lobby degli agricoltori, pur utilizzando metodi discutibili, ha focalizzato l’attenzione su una legittima richiesta: sapere da dove arriva il grano duro.
Voi sapete che si tratta di una richiesta legittima, tant’è che dal 2014 la pasta Voiello, marchio di vostra proprietà, riporta l’indicazione dell’origine del grano sulla confezione ed è un elemento di pregio. Perché non fare la stessa cosa per la pasta blu Barilla?
Alcune aziende hanno promosso iniziative e campagne pubblicitarie in cui rivendicano l’uso di grano straniero per produrre un ottimo prodotto. C’è da chiedersi perché questa informazione non sia ancora presente sulle etichette. Questa scelta dà spazio ai detrattori della pasta italiana e alle lobby per criminalizzare il grano di importazione che voi sapete essere indispensabile. Barilla come leader di mercato ha il dovere morale di iniziare a dichiarare volontariamente l’origine del grano in etichetta. Dopo, gli altri marchi seguiranno. Aspettare non ha senso.
Conoscere l’origine della materia prima è anche un obbiettivo dei ministri delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico, che pochi giorni fa hanno varato un decreto per imporre alle aziende l’indicazione obbligatoria sulle etichette entro 180 giorni. Il decreto probabilmente incontrerà molti ostacoli a livello europeo e non avrà vita facile, per cui non va considerato come il principale elemento di riferimento. Il decreto può essere solo una buona occasione per cambiare in modo volontario le regole.
Vorrei concludere ricordando come due anni fa vi abbiamo invitato a sostituire l’olio di palma dai prodotti Mulino Bianco. Apparentemente non avete preso in considerazione il nostro appello, salvo poi cambiare frettolosamente idea quando vi siete accorti che le vendite dei prodotti contenenti olio tropicale segnavano una costante flessione. Questa volta l’invito è più semplice, si tratta di scrivere sulle etichette da dove arriva il grano duro, come fate da anni per la pasta Voiello. L’alternativa è continuare ad essere travolti dalle campagne folcloristiche delle lobby che distruggono l’immagine della pasta italiana.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Mi chiedo come mai Barilla non voglia rivelare la provenienza del suo grano. In fondo che non sia 100% italiano è il segreto di Pulcinella da anni ormai.
Che sia un’esigenza di marketing? Del resto dopo aver fatto del marchio un simbolo di italianità – che si fanno pagare – per l’enorme quantità di persone fedeli alla Barilla potrebbe essere scioccante scoprire che alla fine si tratta di una pasta come tutte le altre (e che magari ce ne sono anche di migliori).
Personalmente mai comprato Barilla. Non perchè sia particolarmente gramma ma perchè credo che sia sopravvalutata.
Quando la trovo scelgo pasta di marche di nicchia ma comunque ben conosciute, che spesso usano grano 100% italiano. Non tanto per campanilismo ma perchè trovo assurdo che dobbiamo importare grano, una delle fondamenta dell’alimentazione umana: lo Stato stesso dovrebbe garantire una produzione nazionale in grado di coprire il 100% del fabbisogno del paese.
Inoltre spero che col mio piccolo contributo, assieme a quello di altri acquirenti, aumenti la domanda di grano italiano e che quindi da qualche parte si decida di usare un terreno per coltivarlo anzichè asfaltarlo per metterci sopra l’ennesimo centro commerciale.
Concordo in pieno!
Per lo stesso motivo le aziende produttrici di caffè dovrebbero indicare la provenienza della materia prima ??
Secondo voi il consumatore è talmente informato da percepire la differenza tra una robusta vietnamita ed una centro americana ?
Probabilmente la maggior parte dei consumatori pensa addirittura che il caffè venga coltivato in Italia…
Mi sembra evidente che per la pasta di semola, come per il caffè, il consumatore italiano ed estero apprezza il “saper fare”, o per gli anglofoni il “know how”, che comprende anche la scelta della materia prima, che non necessariamente deve essere italiana.
Ma anche i produttori di caffè quando utilizzano specie pregiate indicano sempre l’origine .
Si tratta solo di pochissime referenze mono origine, che rappresentano meno dello 0,1% del mercato.
Per la stragrande maggioranza i produttori non indicato neanche la varietà (robusta o arabica), ma si limitano a scrivere “miscela di caffè torrefatto”, anche perchè la composizione della miscela può variare nel tempo, a seconda dei raccolti.
D’accordo ma per la pasta succede la stessa cosa , si indica in etichetta solo quando è 100% italiano.
Quindi, per assurdo, potremmo avere pasta prodotta da aziende dell’est europa (che già producono per i discount) con un grano italiano di qualità mediocre, che si fregia della medaglia 100% grano italiano, pur essendo, molto probabilmente, un prodotto di scarsa qualità.
È un diritto sacrosanto del consumatore sapere l’origine della materia prima. Io voglio sapere a chi vanno i miei quattrini quando li spendo.
Se a lei non interessa questo non vuol dire che non interessa agli altri. Lei non guarda mai l’etichetta “made in….” o prodotto con latte ….. ecc?
Io sempre.
Semplicemente questo!
Benissimo, allora scriviamo su tutti i prodotti alimentari l’origine della materia prima, ci saranno grosse e non piacevoli sorprese per molti consumatori…
In attesa che Barilla prenda decisioni illuminate indicando l’origine del grano in etichetta, vorrei precisare che sui pacchi di pasta De Cecco da tempo indica sull’etichetta che il grano duro utilizzato per la pasta proviene dall’Italia e dal resto del mondo.
Davvero non riesco a capire che rilevanza possa avere l’origine del grano, cosa di cui si parla da settimane.
Si dovrebbe parlare di più dei temi davvero importanti come le analisi ed i controlli che vengono svolti sulle materie prime e sui processi di lavorazione.
Personalmente sono abbastanza convinto che una grande azienda come Barilla offra molte più garanzie in termini di sicurezza alimentare rispetto ai piccoli pastifici. Poi il gusto della pasta è soggettivo e può piacere o meno.
Il gusto non è un elemento soggettivo come pure la qualità sensoriale. Premesso ciò in questo articolo che abbiamo scritto due giorni fa trova la situazione per quanto riguarda le analisi della materia prima http://www.ilfattoalimentare.it/grano-duro-importato-pesticidi.html
Sono assolutamente d’accordo con l’articolo pubblicato in precedenza, che ad onor del vero mi era sfuggito.
Il food italiano è tra i meglio controllati al mondo ma non basta, l’impegno deve essere crescente indipendentemente dall’origine dei prodotti stessi.
Non concordo invece sull’oggettività del “gusto”, e della qualità sensoriale.
Se è vero che una medesima cultivar di uva o olive coltivate in situazioni ambientali differenti producono caratteri organolettici diversi, probabilmente lo è anche x il grano e quindi per i suoi derivati. A maggior ragione se si utilizzano le “miscele” di grano a dispetto dell’ uso di un’ unica varietà. Poi nella creazione del sapore concorrono altri fattori legati al procedimento industriale/artigianale … si veda anche la differenza nel prezzo di acquisto. Ma poi mi chiedo perché devo inquinare mezzo mondo x avere un prodotto che si può coltivare benissimo anche in Italia?
Perché la quantità di grano italiano non soddisfa le richieste del mercato
La stessa trasparenza la dovrebbero osservare anche altre filiere.
Quelle della carne per esempio, comprese le aziende di trasformazione e della salumeria.
Lo sappiamo tutti che anche in questo campo, specie per la carne suina, non siamo autosufficienti, e che l’importazione da paesi comunitari e anche extracomunitari è all’ordine del giorno. Del resto la qualità della materia prima (a parte i nostri DOP che per disciplinare utilizzano carne italiana, il Gran Suino Padano) discrimina la stessa produzione, in quanto carni olandesi e tedesche sono per lo più utilizzate per l’alta qualità, carni danesi e spagnole per la media e bassa, tagli separati per i ricomposti e i prodotti a farcia fine come wurstel e mortadelle (tra l’altro c’è da osservare in positivo che qualche produttore dichiara oggi l’uso di carne suina al 100% al posto di quella separata meccanicamente in uso nella maggior parte dei wurstel prodotti finora).
L’osservazione delle associazioni di categoria e dei produttori che la dichiarazione d’origine ha un costo è del tutto irrisoria, essendo ormai la carne completamente tracciata almeno dal luogo di provenienza della macellazione.
Anche in questo caso si metterebbero a tacere Coldiretti e soci vari!
La produzione italiana di grano,non solo duro, non è sufficente a soddisfare i fabbisogni nazionali mi chiedo se è veramente necessario, non credo che sia migliore di altri, e le caratteristiche chimiche per i microinquinanti ( pesticidi, micotossine ecc ecc ) deve obbligatoriamente essere in conformità alla legislazione italiana / europea altrimenti non può essere importato.
Per cui francamente me ne infischio quindi sono a posto, sono uno di quei consumatori che non lo chiedono, non sono nazionalista in questo campo, la pasta non è ne DOP ne IGP, sono coscente della non autosufficenza.
A questo punto mi chiedo quando il grano italiano finisce, gli altri consumatori spetteranno di mangiare pasta?
Secondo Il Fattoalimentare 03 dic 2013 c’è il 40% di grano estero nella pasta il che significa che di italiano ce ne è per poco più di 200 giorni all’anno; siccome i “consumatori lo chiedono”, immagino ci sia la corsa ad accaparrarselo prima che finisca 🙂
E comunque il fatto che Barilla non lo faccia non vuole dire che sia una cosa negativa, neanche Ferrero ha tolto l’olio di palma e non credo abbia avuto cali di vendite trascendentali dovuto al “dannosissimo” palma.
Chi vuole indica la provenienza del grano, chè è una strategia di marketing, e chi non vuole non lo mette; il consumatore lo sa e fa le sue scelte senza che ci debba essere l’obbligo calato dall’alto.
Poi mi chiedo, perchè solo sulla pasta?
Il problema non sarebbe solo quello de consumatore italiano che resta senza pasta, ma anche che le aziende produttrici non potrebbero più esportare.
Buon giorno
potete chiedere anche agli agricoltori e alla Coldiretti di adottare la legislazione alimentare per la produzione e conservazione e trasporto del grano, poiché non sono sottoposti alle regole, non è possibile sapere ad esempio che prodotti chimici hanno utilizzato sulla coltura, se hanno trasportato letame prima del grano e se hanno adottato precauzioni in caso di stoccaggio presso l’azienda, se vi è la presenza di colture che possano contaminare con allergeni il prodotto (Soia, Nocciole, ecc..). E quindi essere sottoposti agli organi di vigilanza in modo da essere controllati come tutte le aziende del settore.
I motivi per i quali si chiede l’indicazione dell’origine sono tanti e svariati ……..non è detto che a tutti interessino ma x questo nono significa che devono cadere nell’oblio le indicazioni d’origine della materia prima …….e questo vale per tutti i prodotti……..
“cara barilla perchè lo fai solo con voiello 100% italiano” ?……..e questa mi sembra una domanda da fare sempre allo stesso pulcinella…… perchè poi il fabbisogno soddisfatto (estero) inizierebbe a chiedersi ……ma cosa sto comprando …….un prodotto …..o un “know how” ?……. e questo potrebbe portare qualche problemino …
Inserire la provenienza del grano utilizzato nella formulazione della pasta potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Personalmente non comprerei, non compro quasi mai barilla, una pasta fatta con grano canadese o ucraino. In sicilia ci sono realtà di pastifici che producono esclusivamente con grano coltivato in sicilia e sono stati riscoperti grani anitchi con minore produttività ma con contenuto proteico più elevato.
Benchè tutti lo sappiano che NON utilizza grano italiano, un conto è il famoso”segreto di pulcinella” un conto è SCRIVERLO chiaramente.
Purtroppo anche in campo agroalimentare non si obbligano le aziende a scrivere in etichetta la provenienza del grano, cosi come il caffè per non parlare dell’olio.
Concordo con Massimo quando scrive in sostanza che il consumatore medio è di un’ignoranza mostruosa (sia nel senso letterale che in quello comune), ma se nelle confezioni iniziassimo a scrivere bene le provenienze ed a reintrodurre il produttore allora forse possiamo iniziare a salvare il nostro comparto agroalimentare.
Parlo da addetto ai lavori le norme ed i regolamenti sono spesso indecifrabili mentre potrebbero essere più semplici e chiari per rendere VERAMENTE il consumatore informato.
Inoltre andrebbero bandite tutte quelle scritte ambigue o fuorvianti un esempio su tutte???? Nelle confezioni di acqua minerale la scritta “può avere effetti diuretici”, qualunque liquido ingerito può avere effetti diuretici, dipende dalle quantità, quindi quell’indicazione è fuorviante per il consumatore medio (ignorante).
Barilla utilizza, per l’80 % del fabbisogno, grano ITALIANO, proveniente anche da contratti di filiera con agricoltori dell’Emilia-Romagna, lo diceva un articolo di questo blog di qualche anno fa.
Poi ricordiamo che i pastifici sotto accusa utilizzano sempre MISCELE dal 60 % in su di grano italiano, ed aggiungono grano importato soprattutto per sopperire alla minore qualità tecnologica, potendo offrire un prodotto standard ogni anno. Esistono linee di grano 100% italiano di qualità (ovvero pasta con alta % di proteine che tiene la cottura), che si approvvigionano con contratti di filiera di materia prima con qualità certa ogni anno; ma che è evidentemente impossibile garantire la stessa qualità per i grandi volumi acquistati sul mercato italiano.
Le cose cambiano in fretta e la presenza di altri produttori non italiani è sempre in espansione.
Report evidenziò le frodi sul grano BIO provenienti da paese terzi, quindi figuriamoci sul resto.
Comunque se un produttore non vuole fare dichiarazioni NON obbligatorie è nel pieno diritto di ometterle, il problema come da me precedentemente evidenziato è che se il consumatore CONSAPEVOLE si dirigesse verso un altro prodotto, costringendo in altro modo io produttore a dare le informazioni.
Il consumatore DEVE CAPIRE che è lui che ha i soldi e quindi la possibilità di obbligare le aziende, finché il consumatore si comporterà da caprone non avrà speranza.
Concordo in pieno questo articolo.
Il Made in Italy è un autentico boomerang che si ritorcerà verso il settore primario che attraverso le associazioni dei produttori cerca du decantare chissà quali qualità nascoste nelle nostre produzioni vegetali che, a mio parere, dovrebbero essere sottoposte a controlli sanitari più importanti per garantire la sicurezza alimentare. Concimazioni non adeguate (qualità scadente delle cariossidi di frumento), trattamenti fitosanitari non consentiti e mai riscontrabili, contaminazioni da insetti durante la raccolta, contaminazioni con altre sostanze chimiche durante il trasporto (con automezzi non autorizzati), contaminazioni da micotossine per cattiva gestione dello stoccaggio in gran parte realizzato in luoghi e in contenitori non autorizzati, ecc.. Queste sono alcune criticità delle aziende agricole italiane.