Amnesty International accusa la certificazione dell’olio di palma “sostenibile”. Il marchio RSPO funziona come uno scudo per evitare maggiori controlli
Amnesty International accusa la certificazione dell’olio di palma “sostenibile”. Il marchio RSPO funziona come uno scudo per evitare maggiori controlli
Beniamino Bonardi 8 Dicembre 2016Amnesty International ha pubblicato un dossier intitolato Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti, dove si mette sotto accusa il sistema di certificazione dell’olio di palma “sostenibile”, adottato dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO), l’organizzazione internazionale che dal 2004 riunisce gli operatori della filiera del grasso tropicale e alcune Ong, come il Wwf.
Il rapporto è il risultato di un’indagine sulle piantagioni dell’Indonesia appartenenti al più grande coltivatore mondiale di palme da olio, il gigante dell’agro-business Wilmar, che ha sede a Singapore. La società è il fornitore di nove aziende mondiali come: AFAMSA, ADM, Colgate-Palmolive, Elevance, Kellogg’s, Nestlé, Procter & Gamble, Reckitt Benckiser e Unilever.
Secondo le indagini di Amnesty ,Wilmar e la maggior parte dei suoi clienti vantano l’adesione alla RSPO e la certificazione come prova di due diligence e del rispetto dei diritti umani. In realtà, “l’adesione alla RSPO funziona come uno scudo per evitare maggiori controlli sulle pratiche delle compagnie che vi aderiscono. L’applicazione dei criteri stabiliti dalla RSPO e il loro monitoraggio sono estremamente deboli e basati su un sistema di valutazione superficiale. Le aziende che comprano da Wilmar fanno eccessivo affidamento sul sistema di certificazione RSPO, in particolare per quanto riguarda il rispetto delle condizioni nelle piantagioni”. La realtà, però, è ben diversa e Amnesty sottolinea come “l’essere membri della RSPO e godere della sua certificazione di sostenibilità non possa e non debba essere usato come prova del rispetto dei diritti umani dei lavoratori”.
Amnesty International ha intervistato 120 lavoratori delle piantagioni di palma di proprietà di due sussidiarie della Wilmar (PT Daya Labuhan Indah, PT Milano) e di tre fornitori (ABM, SPMN, and PT Hamparan) nelle regioni indonesiane di Kalimantan e Sumatra. Dalle interviste è emerso il lavoro di bambini da otto a 14 anni che svolgono lavori pericolosi, senza equipaggiamento di sicurezza, in piantagioni dove vengono usati pesticidi tossici e dove si trasportano sacchi di 12 a 25 kg. Alcuni di loro abbandonano la scuola per dare una mano ai genitori nelle piantagioni, altri lavorano il pomeriggio dopo le lezioni o nei fine settimana e nei giorni festivi.
Le donne subiscono discriminazioni, vengono assunte giorno per giorno senza garanzie d’impiego permanente e benefici sociali come l’assicurazione sanitaria e la pensione. Amnesty International ha anche documentato casi di lavoro forzato e di capisquadra che sfruttano le donne minacciandole di non pagarle o di ridurle la paga. I lavoratori sono costretti a ritmi pesanti a costo di grave sofferenza fisica, per raggiungere obiettivi di produzione estremamente elevati. A volte si usano attrezzature manuali per tagliare frutti situati in alberi di 20 metri. Nelle piantagioni viene ancora usato il paraquat, un pesticida altamente tossico, nonostante sia stato messo al bando nell’Unione europea e anche dalla stessa Wilmar.
Nonostante ciò, l’olio di palma proveniente da tre delle cinque piantagioni indonesiane su cui Amnesty International ha indagato è stato certificato come “sostenibile” dalla RSPO. Esaminando la documentazione sulle esportazioni e altre informazioni pubblicate dalla Wilmar, le ricerche di Amnesty International hanno rintracciato olio di palma con questa provenienza in nove marchi di cibo e prodotti domestici. Sette società hanno confermato di utilizzare olio di palma fornito dalla Wilmar, ma solo due (Kellogg’s e Reckitt Benckiser) hanno accettato di fornire dettagli sui prodotti interessati.
Otto dei nove marchi fanno parte della RSPO e sui loro siti o sulle etichette delle tabelle nutrizionali dichiarano di usare “olio di palma sostenibile”. Nove aziende, afferma Amnesty, non hanno smentito l’esistenza di violazioni ma non hanno fornito alcun esempio di azioni intraprese su come vengono trattati i lavoratori nelle attività della Wilmar.
“I consumatori vorrebbero sapere quali prodotti sono legati alle violazioni dei diritti umani ma le aziende mantengono una grande segretezza”, afferma Seema Joshi, direttrice del programma Imprese e diritti umani di Amnesty International. “Le società devono essere più trasparenti su cosa contengono i loro prodotti. Devono dichiarare da dove vengono le materie prime dei prodotti che si trovano sugli scaffali dei supermercati. …. Attualmente, stanno mostrando una completa mancanza di rispetto nei confronti di quei consumatori che, quando si recano alla cassa, pensano di aver fatto una scelta etica.”
Tre delle aziende investigate da Amnesty International sono certificate come produttrici di olio di palma sostenibile dalla RSPO, nonostante i gravi abusi che i ricercatori hanno riscontrato nelle loro piantagioni. Amnesty sottolinea come l’essere membri della RSPO e godere della certificazione di sostenibilità non possa e non debba essere usato come prova del rispetto dei diritti umani dei lavoratori.
La RSPO ha replicato al dossier di Amnesty International, dichiarando di riconoscere “l’esistenza di gravi problemi legati alla tutela dei lavoratori e dei diritti umani nel settore dell’agricoltura intensiva a livello mondiale, e la produzione di olio di palma non fa eccezione in questo senso, soprattutto in contesti caratterizzati da povertà, scarsa legalità e presenza di vuoti legislativi”.
La RSPO afferma che già “prima della pubblicazione del rapporto di Amnesty International, sia Wilmar che il processo di controllo della RSPO avevano adottato importanti misure, che hanno già portato all’identificazione di diverse problematiche tra quelle denunciate da Amnesty International. Wilmar ha già denunciato pubblicamente e volontariamente sul proprio sito web le violazioni che interessano le società PT Perkebunan Milano e PT Daya Labuhan Indah, attraverso la procedura di richiamo conforme ai Principi e Criteri RSPO”.
Infine, la RSPO riconosce che la situazione attuale non è adeguata e si dichiara “consapevole dell’esigenza di migliorare continuamente sia i propri Principi e Criteri sia i requisiti di accreditamento, che saranno rinnovati nel 2017, ampliando l’ambito di verifica degli organi di certificazione, rafforzandone la sorveglianza”.
Interpellato dal Fatto Alimentare, il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, ha detto: “Apprezziamo la replica dell’RSPO, nella quale si dà conto delle preoccupazioni per la situazione dei diritti dei lavoratori della piantagioni della Wilmar in Indonesia. Ci aspettiamo ora che le parole si traducano in fatti ed è ciò che ci impegneremo a verificare nelle prossime ricerche”.
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Complimenti a Fatto Alimentare. Molti giornalisti dovrebbero avere l’obiettivita’ e la correttezza di Bonardi
è bene pubblicare e dare ampio risalto a notizie del genere, sì che l’opinione dei consumatori possa formarsi su tali problemi e riflettere sulle proprie scelte nel mercato.
Io sono poco d’accordo con queste indagini che sono un po’ oppure molto ipocrite. Faccio un esempio molto pratico e che riguarda quasi tutti. Sappiamo bene perché le notizie sono comparse su molti giornali nazionali a più riprese che i telefonici sono fatti sfruttando la manodopera cinese in modo incivile, al pari di questi lavoratori dell’olio di palma, ma nessun cittadino fa nulla.
Esiste una azienda di cellulari che fa il Fairphone che si occupa di acquisire le materie prime che non siano grondanti di sangue (che non provengano da zone in cui ci siano conflitti militari), un giusto prezzo ai minatori, condizioni adeguate ai minatori, sicurezza, lavoratori cinesi pagati e non sfruttati, sicurezza, eliminazione delle sostanze tossiche durante la produzione, ecc, ecc.
Ma questo fairphone è conosciuto dalle persone più tecniche e non ha mai preso piede anche perché costa il doppio e la gente, quasi tutta ma non tutta, dell’etica se ne frega se deve spendere anche qualche euro in più.
Insomma io ribalterei il discorso Fairphone sul discorso coltivazione dell’olio di palma e non vedo possibilità che i coltivatori si ritrovino in condizioni migliori perché la gente non è in massima parte etica a parte pochissima gente.
Bene affrontare il problema in modo complessivo, però sarebbe meglio separare le 2 “campagne”, una per la parte nutrizionale (è peggio o meglio dell’uso del burro, ad esempio) l’altra per la parte violazione dei diritti umani
Vedo che, malgrado tutto, molte persone cercano sempre giustificazioni e appigli per difendere l’indifendibile. Per fortuna molte altre capiscono e scelgono in modo consapevole… E’ chiaro da tempo che la coltivazione su larga scala in aree tropicali della palma da olio NON PUO’ ESSERE CONSIDERATA SOSTENIBILE! L’olio di palma è INSOSTENIBILE dal punto di vista AMBIENTALE, SANITARIO e anche SOCIALE! L’unica sostenibilità che può avere è quella economica, per le multinazionali che lo sfruttano per incrementare a dismisura i loro profitti. Se fossero costrette ad internalizzare i costi ambientali, sanitari e sociali di queste produzioni la coltivazione della palma non sarebbe più conveniente. Ma il consumo responsabile può comunque costringerle a cambiare direzione. Dipende dalle scelte che facciamo noi consumatori …
bravo Gianfranco … condivido tutto … e non ci son più parole da dire su queste coltivazioni … HANNO E STANNO CONTINUAMENTE ROVINANDO IL MONDO ….per cosa poi? quattro soldi in più … sta a noi consumatori mettere uno STOP facciamo attenzione a quello che acquistiamo e tuto al 100xcebnto ITALIANO
Concordo!
io mi domando come si fa ancora a comprare un prodotto che contiene olio di palma. Io leggo gli ingredienti di tutti i prodotti, sia alimentari che non, appena leggo olio di palma, di colza e qualche altra schifezza del genere, lo rimetto sullo scaffale. La scelta giusta e’ stata fatta da Mulino Bianco.
Ammesso che la distruzione ambientale riguarda tantissimi altri settori altrettanto insostenibili, uno per tutti il petrolio con l’estrazione, la raffinazione, i trasporti ed i residui contaminanti, ritengo che le partite vadano giocate una alla volta ed in modo coerente con il tema trattato.
Grazie dell’informazione a Il Fatto Alimentare, con l’invito alla redazione, ad inviare una richiesta scritta alla Ferrero se è informata sui fatti divulgati e quale la loro posizione nel merito, visto che pubblicizzano la sicura sostenibilità delle loro fonti di approvvigionamento della materia prima grasso di palma, che utilizzano in grosse quantità, contribuendo a questi soprusi, dove scoperti ed ammessi anche dal principale certificatore RSPO.