Alimenti biologici in tutte le mense scolastiche. Non è l’assurda pretesa di qualche genitore pignolo, ma una raccodamandazione “ufficiale” contenuta nell’articolo 59 della legge finanziaria del 2000. Nonostante l’invito, però, nel capoluogo lombardo la società Milano Ristorazione ha adottato solo due prodotti bio: la caciotta e lo stracchino. Eppure il cibo biologico continua a essere una delle principali richieste dei genitori che da anni premono per una conversione dei menù scolastici verso il cibo pulito. La cosa più grave è che il biologico rientrava anche nel contratto di servizio stipulato dieci anni fa tra il Comune di Milano e la società (anch’essa comunale) Milano Ristorazione, che gestisce i 70 mila pasti che si scodellano ogni giorno nelle scuole della città (più altri 10 mila in comunità non scolastiche, come quelle per anziani).
Roberto Predolin, presidente della società solo da qualche mese, si difende dichiarando che il biologico costa troppo (“I produttori bio dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza quando fanno i prezzi per le scuole”, ha detto durante un recente incontro pubblico) e ripetendo il solito luogo comune della difficoltà a reperire giornalmente la quantità necessaria di derrate bio. A onor del vero, va detto che nei capitolati di Milano Ristorazione compaiono prodotti biologici, ma quasi tutti possono essere sostituiti, in caso di problemi nell’approvvigionamento, con cibi convenzionali o provenienti dalla lotta integrata, come risulta dal documento allegato che abbiamo estrapolato dal sito di Milano Ristorazione .
Tuttavia ci sono esempi virtuosi, in Italia e in Europa, che parlano di una via biologica possibile e praticabile. Ce ne parla Roberto Spigarolo, ricercatore presso facoltà d agraria dell’Università di Milano ed esperto di approvvigionamenti bio nella ristorazione scolastica: “Qualcuno dice che il cibo biologico costa fino al 40-50% in più. Questo non è vero. Innanzi tutto dobbiamo distinguere le filiere di provenienza. Nel settore ortofrutticolo la differenza di prezzo tra biologico e convenzionale è di circa il 15%. Stesso discorso per i formaggi freschi. Le differenze sono invece più alte nel caso di formaggi stagionati e della carne. In ogni caso, le derrate incidono di circa dal 35 al 42% sul costo-pasto finale. In uno studio durato 3 anni e realizzato in 5 Paesi europei all’interno del progetto europeo iPOPY (innovative Public Organic food procurement for Youth), si è calcolato che se una mensa volesse introdurre il 50% dei prodotti biologici l’aumento del costo pasto oscillerebbe da 40 a 75 centesimi di euro”.
Non è quindi necessario risparmiare sulle derrate. Per ottimizzare i costi si dovrebbe lavorare sugli altri elementi che costituiscono i due terzi delle spese. Spiega ancora Spigarolo: “Se si introducesse in maniera massiccia il self-service, si risparmierebbe sul costo del personale, si ridurrebbero gli sprechi, che per Milano Ristorazione sono attualmente stimati attorno al 40%, e si farebbe anche della sana educazione all’autonomia (a Milano in alcune scuole ci sono i self-service e i risultati sono interessanti n.d.r.). In Finlanda un bambino di 6 anni entra in mensa, si serve da solo, sparecchia, differenziando i rifiuti, e mette il piatto sul nastro trasportatore che va in cucina. Ma temo che le mamme sarebbero le prime ad opporsi a questo sistema”.
Quanto al problema della reperibilità, Spigarolo racconta il caso della provincia di Piacenza: “Nel 2004 è nato il consorzio di agricoltori “BioPiace”, promosso dalla Coldiretti locale, che fornisce il 77% degli ingredienti alle mense scolastiche della provincia. Si tratta di prodotti locali e quasi tutti biologici. Il sistema ha dimostrato di funzionare: non solo ha salvato dalla chiusura alcuni agricoltori di montagna, che così hanno trovato un canale di vendita sicuro, ma ha consentito alle mense di servire prodotti di ottima qualità. Con i risvolti didattici del caso, come i bambini che vanno a visitare chi produce il cibo che mangiano ogni giorno. Il consorzio serve tra l’altro a ottimizzare i costi logistici, con i produttori che si alternano nelle consegne”. Un buon risultato, insomma, frutto della sinergia tra Provincia, produttori e mense.
Certo, riprodurre questo schema in una realtà grande e complessa come quella milanese è difficile, ma non è nemmeno un miraggio. Un Comune come Roma, che serve 150 mila pasti al giorno, il doppio di Milano, è riuscito, a convertire in bio una parte rilevante dei menù. “Il discorso di Roma – spiega Spigarolo – è stato chiaro: investire economicamente nel bio per risparmiare, in prospettiva, sulle spese mediche per la salute infantile. Una corrispondenza forse un po’ azzardata, ma che dà l’idea della volontà del Comune di puntare sulla qualità. Milano, invece, ha dichiarato in più occasioni di voler contenere i costi”.
Scelte decise come quella romana riescono poi a orientare il mercato: se cresce in maniera massiccia la richiesta di prodotti biologici, le aziende convenzionali sono automaticamente incentivate a convertire il modo di produzione nei campi. Attualmente buona parte della produzione biologica italiana, soprattutto l’ortofrutta, viene esportata in Paesi, come la Germania, dove il bio è commercializzato anche dai supermercati. Nel nostro Paese i principali clienti sono le mense scolastiche, che possono remunerare in misura minore i produttori rispetto ai supermercati del Nord Europa. Ma se le mense cominciassero a stipulare contratti di lungo termine e per quantità interessanti, come gli 80 mila pasti milanesi, il mercato nazionale prenderebbe fiato. Come a dire, se non subito, il sogno di una mensa totalmente composta di prodotti locali e biologici, anche in una grande città, si può cominciare almeno a metterlo in cantiere.
Come? Uno strumento sono senza dubbio i consorzi tra produttori. E gli sportelli di consulenza, come lo Sportello mense bio, servizio di consulenza della Regione Emilia Romagna per sostenere il biologico nelle mense scolastiche. A breve uno analogo dovrebbe partire anche in Lombardia, con lo scopo di mettere in contatto mense e produttori biologici e soprattutto, fornire indicazioni precise per scrivere capitolati sostenibili.
Scrivere un capitolato “bio” non è semplice, spiega infatti Spigarolo: “E’ inutile richiedere ortaggi e frutta biologici e poi specificare che si vuole la Categoria extra: per l’ortofrutta bio la categoria commerciale, basata più su aspetti estetici, non è significativa”. E’ poi è necessario venire a patti con i nutrizionisti: “L’Italia è uno dei paesi europei dove le tabelle dietetiche sono scritte su indicazione delle Asl. Se si vuole puntare sul biologico bisogna scendere a compromessi. Per
esempio, quando si ordina la carne di maiale bio, non si può richiedere solo la lonza: il produttore deve vendere tutte le parti del maiale, e non solo quella più pregiata. Per avere il suino bio a prezzi ragionevoli, bisogna quindi inserire nei pasti anche la spalla e il cosciotto, anche se poi la porzionatura diventa complicata. Tenendo presente che è inutile calibrare al grammo le proporzioni di proteine, grassi e carboidrati nei menù se il 40% degli alimenti viene rifiutato”.
Insomma, i margini di miglioramento per le mense del capoluogo lombardo ci sono. E’ quindi ingiustificato il primato negativo di Milano Ristorazione nella ricerca, in corso di completamento, che la Regione Lombardia ha commissionato al gruppo di lavoro di Spigarolo sulla situazione del biologico. Dai primi dati emerge che il 49% dei Comuni propongono numerosi ingredienti bio e che in Provincia di Milano, 57 Comuni su 76 possono vantare almeno 5 referenze nei propri menù. Milano, con la sua caciotta e il su stracchino, fa proprio una magra figura
Stefania Cecchetti
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