In Canada e negli Stati Uniti si inizia a sperimentare il “rooftop farming”. Coltivare frutta e verdure in serra sopra i tetti degli edifici. Piccoli ma non trascurabili esercizi di sovranità alimentare su scala locale, a tutto beneficio dell’atmosfera metropolitana. E del business.

La crisi alimentare, i prezzi delle derrate agricole alle stelle, il crescente bisogno di ritrovare un rapporto diretto con la natura devono spesso fare i conti con l’urbanizzazione. Coltivare frutta e ortaggi per l’auto-consumo in un campo vicino casa è un lusso per pochi nelle grandi città, divorate dalle speculazioni edilizie e dal cemento.

Trovare un lembo di terra a ore di traffico di distanza ha costi improponibili, anche in termini ambientali e di stress: basti citare una lettera pubblicata sul numero di Agrisole-Il Sole 24 Ore dello scorso 22 maggio, nella quale una giovane madre lamenta di non essere riuscita a trovare un ettaro di terra in affitto in un raggio di cento chilometri da Milano (!).

“Lufa Farms” (www.lufa.com) ha da poco iniziato a vendere a Montreal l’ortofrutta chilometro-zero coltivata sui tetti: il suo motto è “Fresco, Locale, Responsabile”. Un sogno diventato realtà grazie all’intraprendenza dei suoi artefici, capaci di costruire sul tetto di un grigio ufficio una serra di 10.000 mq e coltivarvi tutto l’anno pomodori, cetrioli, peperoni e altri ortaggi.

È solo un esempio della convergenza tra lo sviluppo delle tecnologie e delle esigenze dei consumatori. L’utilizzo di tecniche di coltivazione idroponica (senza terra) e di serre ad alta redditività, abbinate al crescente interesse dei consumatori verso i prodotti biologici, hanno permesso la realizzazione di nuovi modelli di business.

Il modello “Lufa Farms” prevede la distribuzione diretta ai consumatori attraverso una cooperativa; mentre altri modelli di agricoltura urbana (come quello proposto da BrightFarms sono orientati verso le intese con grandi catene dei supermercati, per costruire serre sui loro tetti e vendere i prodotti nei locali sottostanti.

Un altro metodo è quello dell’agricoltura verticale (vertical farming), vale a dire coltivare cibo sui grattacieli o anche nei magazzini, in questo caso con l’aiuto di luce artificiale, utilizzando piante e materiali bio. Uno dei sostenitori è Dickson D. Despommier, docente emerito di salute pubblica e microbiologia alla Columbia University. “TerraSphere”, con uffici in Surrey (British Columbia, Canada) e Boston (Usa), disegna e costruisce sistemi di agricoltura verticale e vende le sue lattughe e spinaci attraverso una catena di supermercati bio in Canada, Choices Markets.

Incredibile ma vero, queste imprese sono pure in grado di realizzare profitto. Gli investimenti iniziali sono notevoli, sino a $1,2-2 milioni per trovare un edificio e costruire una serra di grandi dimensioni, ma i costi operativi sono assai inferiori a quelli della agricoltura tradizionale. Le rooftop farms richiedono meno lavoro, terra, acqua, fertilizzanti e macchinari pesanti, oltre a eliminare i costi di trasporto poiché vendono ai mercati locali. E la produzione è continuativa nelle quattro stagioni. I business plan sono dunque assai promettenti.

Si utilizzano tecniche naturali di protezione dai parassiti e acqua riciclata, e la tecnologia utilizzata nelle serre consente di ridurre sino al 25% le spese di riscaldamento degli interi edifici. I prezzi possono essere lievemente maggiori rispetto a quelli di mercato, ma i consumatori sanno apprezzare la freschezza di prodotti messi loro a disposizione entro 24 ore dalla raccolta.

La prossima sfida è quella della Grande Mela: New York ha circa 57 km2 di tetti inutilizzati ma sfruttabili secondo Laurie Schoeman, direttore di Sun Works, una Ong newyorkese che promuove lo sviluppo di serre sui tetti. I giardini sui tetti abbondano, ma senza la copertura delle serre la stagione produttiva è limitata. Secondo Ms. Schoeman, l’installazione di serre su questi tetti permetterebbe di nutrire con cibi freschi i circa 20 milioni di residenti nell’area metropolitana. Per non dire del positivo influsso sul bilancio di anidride carbonica dell’intera area.

E allora perché queste tecniche non sono ancora emerse? In parte è dovuto alla recente evoluzione delle tecnologie, in parte alle resistenze culturali che si sono anche tradotte anche in ostacoli alle autorizzazioni amministrative. Fino a poco tempo fa la produzione alimentare, al di là dell’Oceano Atlantico, era concepita esclusivamente in termini di produzione di massa e solo negli ultimi anni, anche per merito del rincaro del petrolio e quindi pure dei costi di trasporto (che raggiungono il 50% del prezzo, nel caso non infrequente di una lattuga che abbia viaggiato 2000 km dal campo allo scaffale), i consumatori hanno sviluppato una sensibilità verso i prodotti freschi a km-zero.

Fantascienza, utopia o futuro prossimo?

Dario Dongo

Per maggiori informazioni:

http://www.nytimes.com/2011/05/19/business/smallbusiness/19sbiz.html?sq=rooftop&st=cse&scp=6&pagewanted=print

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