“È ora di preoccuparsi davvero del rapporto tra grandi multinazionali del settore alimentare e salute. Ed è ora che decisori politici ed esperti di sanità pubblica comincino a interrogarsi su come interagire con i big dell’industria.” Questo, in breve, il messaggio lanciato dalla rivista specializzata PLoS Medicine con una serie di articoli dedicati appunto a “Big Food”, appena pubblicata.

 

Nel loro intervento d’apertura i due curatori della serie – l’esperta di nutrizione umana e politiche alimentari Marion Nestle e il sociologo David Stuckler – mettono subito in chiaro qual è il contesto in cui, oggi, ci troviamo a discutere di cibo, salute e politiche sanitarie. Un mondo sbilanciato in cui un miliardo di persone soffre la fame e due miliardi di persone sono obese o in sovrappeso. «Può sembrare un paradosso ma non lo è – affermano gli autori – perché entrambi gli aspetti hanno una radice comune: la natura dei sistemi alimentari mondiali, che non sono fatti per rispondere in modo ottimale alle nostre esigenze nutrizionali, ma per massimizzare i profitti di “Big Food”».

 

Insomma: per definizione l’industria deve guadagnare e quella alimentare ha trovato nel settore dei cibi elaborati e confezionati (dagli snack ai pasti pronti ai prodotti in scatola) e dei soft drink (bibite analcoliche zuccherate e gassate) una vera gallina delle uova d’oro. Perché hanno costi di produzione molto bassi, una conservazione lunghissima e un prezzo di vendita decisamente vantaggioso per il produttore (cioè alto rispetto alla qualità). Non a caso, Stuckler ricorda che «la produzione di soft drink, insieme a quella di tabacco, è tra le attività industriali più redditizie al mondo». 

 

Fin qui può sembrare una normale questione di economia aziendale, ma il punto è che i prodotti di Big Food non sono privi di conseguenze. Al contrario, sempre più studi stanno mettendo in relazione il consumo di bibite zuccherate e di prodotti ricchi di sale, zucchero o grassi con condizioni quali diabete, obesità (anche infantile) e patologie cardiovascolari. Il che trasferisce tutta la questione sul piano delle politiche di sanità pubblica e su quello attualissimo delle misure messe in atto da alcuni governi per cercare di limitare i consumi di cibi e bevande spazzatura. Una tra tutte il divieto di vendita di bibite in bicchieri da più di mezzo litro, proposto dal sindaco di New York Michael Bloomberg.

 

In effetti, il modo in cui politici ed esperti di sanità pubblica dovrebbero fronteggiare i rischi pubblici posti da Big Food è proprio uno dei temi caldi su cui si è concentrato il dossier di PLoS Medicine. Stuckler e Nestle hanno ricordato che esistono tre vie principali per interagire con le grandi multinazionali alimentari. Uno: lasciare che il settore si regolamenti da solo e che le forze di mercato auto-correggano le ricadute negative. In questa prospettiva non sono previsti interventi diretti sulle aziende, ma al massimo iniziative di informazione, in modo che i singoli individui arrivino a preferire cibi sani a quelli non salutari. Due: puntare a collaborazioni con l’industria perché anche lei dia una mano a diffondere una cultura del “cibo sano”. Tre: puntare su iniziative di regolamentazione esterna del settore da parte dei governi: dalle restrizioni alla pubblicità per bambini a standard più stringenti per la qualità dei pasti serviti nelle mense, alle tasse sui prodotti spazzatura.

 

Per i due esperti non c’è dubbio: l’approccio giusto è il terzo, il più critico. «La missione di Big Food è quella di espandere i propri mercati, mentre l’interesse pubblico sta nella riduzione nel carico di obesità e malattie. Sono due obiettivi contrastanti ed è molto difficile immaginare che l’industria possa lavorare insieme ai governi, in modo trasparente, per fare il loro interesse e non il proprio».

 

È un punto di vista trasversale a tutti gli interventi del dossier, che nel complesso sottolineano la necessità non solo di agire, ma di farlo velocemente, per almeno tre ragioni. La prima l’abbiamo già ricordata e riguarda gli effetti negativi sulla salute umana di un’alimentazione dominata da prodotti spazzatura. «Ci sono voluti 50 anni perché dai primi studi che mettevano in relazione tabacco e cancro si arrivasse a misure di sanità pubblica contro il fumo. Dobbiamo aspettare altri 50 anni per rispondere ai rischi posti da Big Food?» si chiedono sempre Stuckler e Nestle.

 

Seconda ragione: il fatto che, proprio imparando dall’esperienza dell’industria del tabacco, le multinazionali alimentari sono diventate abilissime a tenere sotto controllo le attività di governi e organismi sovranazionali. Sono sempre più diffuse campagne di responsabilità sociale che sono in realtà perfette operazioni d’immagine organizzate per fidelizzare clienti o superare ostacoli, come nel caso di un’enorme donazione (10 miliardi di dollari) elargita dall’industria dei soft drink al Children’s Hospital di Philadelphia, proprio nel momento in cui la città stava pianificando una tassa sulle bibite zuccherate.

 

Non solo: sono molte le occasioni in cui gli esponenti di Big Food vengono consultati e coinvolti, come sponsor o come partecipanti attivi, a iniziative di salute pubblica, in campo alimentare ma non solo. Esemplare in questo senso è quanto accaduto in Tanzania, dove il governo ha deciso di affidarsi alla rete di distribuzione della Coca Cola, particolarmente capillare e in grado di raggiungere anche le campagne più isolate, per la distribuzione dei farmaci anti-retrovirali per la terapia dell’Aids. Il caso illustra alla perfezione il grado di penetrazione di Big Food in questioni politiche e decisionali di varia natura.

 

La terza ragione di intervento riguarda la velocissima espansione delle grandi multinazionali alimentari nei paesi a basso e medio reddito. Quelli ad alto reddito, infatti, sono ormai saturi:  difficile che il mercato cresca ancora. Ma negli altri c’è spazio e Big Food lo sta rapidamente occupando tutto, in particolare grazie a politiche di acquisizione progressiva di produttori locali. Finora, il “peso” di obesità e malattie cardiovascolari nei paesi in via di sviluppo è stato ritenuto minimo e trascurabile, ma la situazione sta cambiando in fretta: in India, per esempio, una persona su cinque è oggi in sovrappeso. Per di più, anche i minimi interventi messi in atto finora nei paesi ad alto reddito su pressione di governi e istituzioni, come la  riduzione del contenuto di zucchero o di sale di certi prodotti, nei paesi in via di sviluppo non sono applicati. Una combinazione di fattori che rischia di creare, nei prossimi anni, un problema di sanità pubblica di dimensioni colossali proprio dove la sanità è più fragile.

 

Valentina Murelli (articolo pubblicato anche su ilfattoquotidiano.it) 

Foto: Photos.com

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Dott.ssa Sara Campolonghi
Dott.ssa Sara Campolonghi
18 Luglio 2012 09:46

E’ una lotta impari, e gli interessi economici in ballo sono elevatissimi. Non solo i governi devono cominciare a varare provvedimenti per scoraggiare il consumo di prodotti nocivi ed obesizzanti, ma occorre anche che il consumatore cominci nel suo piccolo a fare scelte più consapevoli per mettere in atto un cambiamento dal basso, non solo individualmente ma cercando di coinvolgere la famiglia e le persone del proprio ambiente in questo percorso. Se le persone cambieranno i propri gusti e il loro modo di consumare ed acquistare, si potrà cambiare il mondo intorno!