Se l’Italia compie 150 anni, l’INRAN ne compie 75. L’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, ente pubblico di ricerca dipendente dal Ministero dell’Agricoltura, ha pensato di celebrare il doppio anniversario pubblicando sul proprio sito un interessante opuscolo sulle abitudini alimentari degli italiani nell’ultimo secolo e mezzo. Del resto la riflessione sulla cultura alimentare del nostro Paese è nel DNA di questo Istituto, che dal 1986 pubblica le “Linee giuda per una sana alimentazione italiana”.
Com’è intuibile, l’INRAN registra, in questi 150 anni, il passaggio da una società della scarsità a una dell’abbondanza, testimoniato dal generale aumento di statura della popolazione. Fino alla Seconda Guerra Mondiale lo stile alimentare italiano era molto vicino a quello attuale dei Paesi in via di sviluppo, basato principalmente su pane e ortaggi, a fronte di uno stile di vita meno sedentario rispetto a oggi. Un altro elemento importante era la scarsa igiene che favoriva le tossinfezionialimentari. Si tratta di condizioni che contribuivano alla malnutrizione dei bambini e all’alta mortalità infantile.
Il boom economico del dopoguerra ha sdoganato alimenti nutrizionalmente più ricchi, come il latte e la carne. Sono arrivati i tempi della bistecca tutti i giorni e della margarina al posto del burro. Si sono abbandonati, o quasi, cereali come l’orzo, la segale e il mais a favore del grano, per lo più nella versione “povera” della farina raffinata. Sono passati di moda anche i legumi secchi e la frutta con guscio. Ma l’abbondanza ha il suo prezzo: mentre sono quasi scomparse le malattie dovute a carenza nutrizioanli, sono aumentate le malattie cronico degenerative, come diabete e tumori, favorite da uno stile di vita sempre più sedentario.
Sorprendentemente, la presunta modernità alimentare non ha spazzato via la buona abitudine degli italiani di consumare ortaggi. Anzi, negli anni ’60 – rileva l’INRAN – ci fu una sorta di “rivoluzione verde” nell’opinione pubblica mondiale, con la consacrazione della dieta mediterranea. Una fortuna che, a fasi alterne dura fino ai giorni nostri. Risale al 16 novembre 2010 il riconoscimento ufficiale dell’UNESCO, che ha proclamato la dieta mediterranea Patrimonio immateriale dell’Umanità, per il suo valore storico-culturale e per i suoi effetti benefici sulla salute.
Attenzione, però, mette in guardia l’INRAN: perché oggi in Italia non si mangia seguendo il modello strettamente mediterraneo, che prevede largo consumo di ortaggi, cereali e legumi, poca carne e tanto pesce. Rispetto agli anni Sessanta nella dieta è fortemente aumentata la presenza di proteine animali (dal 14 al 21% del fabbisogno giornaliero) e di grassi, soprattutto animali (dal 7 al 17%), anche a scapito dei carboidrati, che non rappresentano più il 59% del fabbisogno giornaliero ma solo il 45.
Infine, un dato positivo: oggi, anche a causa dei grandi scandali alimentari della modernità (su tutti: mucca pazza), la consapevolezza dei consumatori verso la sicurezza e le problematiche riguardanti il cibo è fortemente aumentata. Insomma, vogliamo sapere cosa abbiamo nel piatto e chiediamo sempre più che siano prodotti di qualità.
Stefania Cecchetti
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