La carne biologica certificata offre un vantaggio ulteriore, oltre a quello dell’assenza di fitofarmaci, antibiotici, ormoni, pesticidi ed erbicidi: contiene molto meno frequentemente batteri resistenti agli antibiotici di quella convenzionale, e questo è un bene per il singolo consumatore, ma anche per tutta la popolazione. La scoperta giunge da un imponente studio appena pubblicato su Environmental Health Perspective dai ricercatori della Bloomberg School of Public Health della Johns Hopkins University di Baltimora, che hanno analizzato i dati di poco meno di 40 mila campioni di carne di pollo, manzo e maiale controllati tra il 2012 e il 2017.
Negli Stati Uniti, già nel 1996 era stato lanciato il programma di monitoraggio continuo chiamato U.S. National Antimicrobial Resistance Monitoring System for Enteric Bacteria (Narms), grazie al quale si cerca di tenere sotto controllo l’andamento dell’antibiotico-resistenza nei pazienti, ma anche nei prodotti in vendita in negozi e supermercati, negli allevamenti e nelle fattorie. In particolare, nello studio i ricercatori hanno verificato la presenza dei quattro batteri più diffusi, e cioè la Salmonella, il Campylobacter, l’Enterococcus e l’Escherichia coli, e hanno scoperto che geni per la resistenza erano stati rilevati in oltre 1.400 campioni.
Andando poi a controllare il tipo di carne, hanno dimostrato che quei geni erano stati ritrovati nel 4% di quella convenzionale, e nell’1% di quella certificata come biologica dallo US Department of Agriculture, con un calo, quindi, del 56% nella seconda rispetto alla prima. Ma lo studio è andato anche oltre, perché ha permesso di comprendere un elemento fondamentale, per quanto abbastanza prevedibile: le contaminazioni e il passaggio dei geni per la resistenza si verificano spesso negli impianti di macellazione e in generale di lavorazione dove si trattano tutti i tipi di carni, biologiche e tradizionali. In generale, infatti, i 4 batteri sono presenti in un terzo di quelli che lavorano solo carni convenzionali, ma solo in un quarto di quelli misti. Ma i geni della resistenza si trovano nelle stesse percentuali in entrambi i tipi, e questo dimostra che, qualora presenti, i geni passano dalla carne tradizionale a quella biologica attraverso gli strumenti, le superfici, gli attrezzi. E indica chiaramente uno dei punti sui quali è possibile intervenire per ridurre la resistenza: la separazione rigida tra impianti che trattano tipi diversi di carni.
Del resto, che sia urgente intervenire lo dimostra anche, indirettamente, un altro studio, questa volta pubblicato su The Lancet Microbe dai ricercatori del Wellcome Sanger Institute di Londra, che hanno controllato la presenza dei geni della resistenza agli antibiotici nei ceppi di Escherichia coli di 3.200 pazienti che si sono infettati negli ultimi 16 anni in Norvegia. L’esito è stato molto chiaro: dal 2002 al 2017 la resistenza è sempre cresciuta, nei ceppi di Escherichia coli che hanno infettato l’uomo, ed è passata non solo da una generazione all’altra di uno stesso ceppo, ma anche, come si temeva, tra ceppi diversi, orizzontalmente. Questo, tra l’altro, conferma quanto moltissimi esperti hanno ribadito per il coronavirus negli ultimi mesi: è fondamentale sequenziare in modo regolare i ceppi che circolano nella popolazione, per prendere le opportune contromisure ed evitare di farsi cogliere di sorpresa.
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Giornalista scientifica