Anche l’Agenzia americana che vigila sulla sicurezza di farmaci e alimenti (Food and Drug Administration, FDA) si schiera contro il bisfenolo A (BPA) nei biberon e nelle stoviglie per bambini. Rispetto alle altre autorità sanitarie lo fa con insolita lentezza, dopo una specifica sollecitazione dei produttori, e specificando che le nuove regole valide per i contenitori in policarbonato dei bambini non valgono per gli imballi, perché il BPA è sicuro.
Come riferito dal New York Times, l’ente regolatorio statunitense accoglie l’invito dell’American Chemistry Council e formalizza quello che è già un dato di fatto, perché da tempo le aziende hanno sostituito la plastica tradizionale con altre prive di BPA, in seguito al crescente allarme degli esperti e dell’opinione pubblica sull’argomento.
Tuttavia, ciò che lascia perplessi è l’atteggiamento della stessa FDA, in altre situazioni assai più puntuale e severo. Il BPA è infatti ormai universalmente ritenuto un distruttore o quantomeno un interferente endocrino, cioè una sostanza che, una volta entrata in contatto con l’organismo, provoca squilibri ormonali e danni neurologici.
L’effetto suggerito da decine di studi epidemiologici è molto evidente negli animali, dove i feti delle madri che assumono BPA presentano gravi anomalie nello sviluppo sessuale e cognitivo, e aumento di rischio di alcune forme tumorali. Gli studi sull’argomento sono numerosi e si susseguono senza sosta. Non più tardi di qualche giorno fa una ricerca pubblicata su Pediatrics ha associato la presenza di BPA nelle otturazioni dentali a disturbi nel comportamento nei bambini. Nonostante tutto ciò, le autorità federali continuano a sottolineare che il BPA è innocuo. Nel frattempo però, hanno già speso più di 30 milioni di dollari in studi specifici.
Purtroppo i dubbi non riguardano solo il comportamento della FDA. Anche l’Unione Europea, per ora, ha vietato solo l’impiego dei policarbonati con BPA nei biberon, ma non negli altri contenitori per alimenti, e l’EFSA, nel 2011, ha ribadito che il BPA non comporta rischi, e rinviato una possibile revisione dei valori di riferimento a fine 2012.
Ciò ha spinto diversi Paesi di tutte le latitudini (Argentina e Brasile, Sud Africa, Malesia e Cina, Australia e così via) a mettere in atto normative molto più restrittive, sulla scia di quanto già fatto per esempio in Canada (dal 2009 il composto non deve essere presente nella stragrande maggioranza di ciò che entra a contatto con il cibo) o in Francia e in alcuni paesi nord-europei (dove tra BPA e alimenti non vi deve essere più nessun contatto, anche vista la grande capacità di migrazione).
La stessa tendenza si registra da parte di molte grandi aziende, oltre a quelle di prodotti per l’infanzia, che cercano di modificare i processi produttivi e i materiali usati per eliminare il BPA; la Campbell Soup, per esempio, ha rinunciato alla banda stagnata delle latte delle sue celebri minestre, che era piena di BPA, a favore di nuove plastiche BPA-free.
La situazione è dunque in evoluzione, anche se ci vorrà molto tempo prima che si giunga a un atteggiamento condiviso e quindi efficace, soprattutto perché il BPA è ancora una sostanza ubiquitaria. Secondo uno studio dell’Università di San Francisco uscito pochi mesi fa e condotto su circa 2.000 persone, è presente nel 96% della popolazione e passa attraverso il latte materno e il cordone ombelicale. La sua scomparsa definitiva dall’organismo umano si potrà raggiungere solo molti anni dopo la totale messa al bando a livello internazionale, come avvenuto per esempio per sostanze quali il DDT, con costi astronomici.
Un messaggio positivo in tutta questa storia c’è: quando l’opinione pubblica, debitamente informata, si mobilita davvero, ottiene risultati che precedono e in certi casi superano, per dimensioni, il tardivo recepimento delle richieste di applicazione del principio di precauzione da parte di autorità sanitarie.
Agnese Codignola
Foto: Photos.com