Lo scorso mese, negli Stati Uniti sono stati disposti due richiami di pesce surgelato, risultato positivo all’epatite A. Il primo di questi, avvenuto alle Hawaii il 1 maggio, riguardava tonno crudo surgelato di origine indonesiana, mentre il secondo, del 18 maggio, interessa tranci di tonno pinna gialle surgelato proveniente dal Vietnam e dalle Filippine. La Food and drug administration continua ad aggiornare la lista dei ristoranti e delle attività che potrebbero aver distribuito il prodotto sottoposto a richiamo.
Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Frutti di bosco, sushi, pesce e altri alimenti possono risultare positivi al virus responsabile dell’epatite A. La causa più comune dell’inquinamento di questi differenti prodotti alimentari sembrerebbe essere la scarsa igiene durante la loro manipolazione. Tra il 2013 e il 2015, in varie parti del mondo si erano registrate numerose allerta per la vendita al dettaglio di frutti di bosco surgelati contaminati dal virus dell’epatite A. In Italia i casi sono stati circa 1.780 e Il Fatto Alimentare aveva seguito e raccontato l’intera vicenda.
Abbiamo chiesto a Valentina Tepedino veterinaria direttrice di Eurofishmarket come sia possibile riscontrare questo patogeno nel pesce: “La segnalazione è particolare ma possibile. La contaminazione non è da attribuire al prodotto iniziale, ma potrebbe essere avvenuta per una scorretta gestione nella fase di lavorazione, dopo la pesca (per la realizzazione dei tranci ad esempio). La causa potrebbe essere imputata all’acqua di lavorazione utilizzata. In letteratura sono presenti alcuni studi che hanno evidenziato il possibile rischio da epatite A in sushi gestiti in modo scorretto soprattutto per quanto riguarda il rispetto delle buone prassi igienico-sanitarie. In Italia ad oggi non è stata fatta nessuna segnalazione in merito, riguardo al tonno pinna gialla o al pesce da sushi in generale”. In aggiunta, secondo la direttrice di Eurofishmarket, “potrebbero rappresentare un ulteriore rischio anche le pratiche illecite di additivazione utilizzate per fare mantenere al tonno una colorazione rossa accattivante. Queste pratiche vengono svolte al di fuori del rispetto di un piano di autocontrollo, essendo illegali, e dunque rappresentano un ulteriore rischio potenziale”.
I sintomi dell’epatite A si manifestano da 15 a 50 giorni dopo il consumo di un cibo o una bevanda contaminati e includono stanchezza, dolori addominali, ittero, esami epatici alterati e urine scure. Sono a rischio le persone non vaccinate. Il Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) raccomanda la profilassi post-esposizione per le persone non vaccinate che hanno mangiato il pesce richiamato nelle ultime settimane. Le persone che hanno consumato il prodotto completamente cotto sono a ridotto rischio di esposizione, ma è comunque consigliato un consulto medico. Fino a questo momento, secondo il Cdc, non sono stati registrati casi di malattia dovuti all’ingestione del lotto coinvolto nel richiamo.
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Acqua inquinata, mani ed utensili sporchi da cattiva igiene; ma della estesa e prolungata intossicazione causata dai frutti di bosco surgelati contaminati dal 2013, non abbiamo avuto notizie sulle cause che hanno provocato una così grande diffusione del virus dell’epatite A.
A volte divulgare le notizie sulle allerte da contaminazioni può essere molto utile, non solo per segnalare ai consumatori i pericoli connessi, ma riveste ugualmente grande utilità per gli stessi operatori, che prendono atto dei rischi che corrono anche con banali disattenzioni e mancati controlli igienici nelle prassi produttive.
Casi eclatanti diffusi e pericolosi come questi, insegnano più di qualsiasi manuale di autocontrollo.
Sempre se le informazioni sugli eventi sono completate anche con la diffusione delle cause che li producono ed i rimedi messi in atto.
Il Ministero dovrebbe pubblicare e divulgare queste esperienze a scopo preventivo e didattico a tutti gli operatori. Altro che spegnere per non allarmare, come sembra sia prassi abituale!