Com’è cambiata la dieta delle persone negli ultimi decenni? Si è modificata in meglio o in peggio? La risposta a questo tipo di interrogativi non ha solo un’importanza generale, ma ne riveste una scientifica, perché dalla tendenza in atto possono derivare i principi su cui impostare le politiche pubbliche in molti campi, che vanno dalla produzione e distribuzione del cibo fino alle linee guida nutrizionali. Per esempio, una volta individuate specifiche carenze, un paese può decidere di incentivare la produzione di alcuni alimenti, oppure di vietare pubblicità di determinati prodotti, promuovere campagne educative mirate e così via. Finora, però, gli studi che avevano cercato di mettere a fuoco la situazione generale sono sempre stati incompleti, disomogenei, parziali, e non hanno quasi mai preso in considerazione i dati relativi ai bambini. E a causa di queste lacune, nessuno studio hai mai portato a una visione globale. Per superare questi limiti, i ricercatori della Tufts University di Boston insieme a una collega della McMaster University, in Canada, hanno lavorato su dati relativi al periodo 1990-2018 elaborati dal progetto Global Dietary Database, che sta raccogliendo informazioni sulle abitudini alimentari dei cittadini di tutte le età di 185 paesi attraverso oltre 1.100 indagini specifiche.
Per avere un riferimento immediatamente comprensibile, i ricercatori nordamericani hanno adottato il punteggio Alternative Healthy Eating Index messo a punto dai ricercatori dell’Università di Harvard nel 2006, che valuta la dieta in un range compreso tra 0 e 100, dove 0 è rappresentato da un elevato consumo di junk food e in generale di alimenti di scarsissima qualità nutrizionale, e 100 dall’aderenza ai dettami delle linee guida ufficiali. Come parametri accessori sono stati calcolati anche gli indici di aderenza alla dieta Dash (studiata per ridurre l’ipertensione) e quella mediterranea, i Dietary Approaches to Stop Hypertension e Mediterranean Diet Score, proposti nel 2014 e nel frattempo convalidati in molti studi.
Il risultato, pubblicato su Nature Food, è stato che, in generale, nel mondo si mangia piuttosto male: il punteggio medio, nel 2018, era pari a 40,8, con ampie differenze regionali, perché andava dal 30,3 dell’America Latina al 45,7 dell’Asia meridionale. Solo dieci paesi, che rappresentano meno dell’1% della popolazione globale, raggiungevano un punteggio superiore a 50. Tra i paesi più popolosi del mondo, invece, i migliori erano l’India, l’Iran, il Vietnam e l’Indonesia, mentre i peggiori risultavano essere il Brasile, il Messico, gli Stati Uniti e l’Egitto.
I punteggi erano generalmente molto simili nelle diverse fasce di età, con l’eccezione delle zone dell’Europa centrale e orientale, del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale e dei paesi ad alto reddito, nelle quali i bambini mangiavano peggio degli adulti. Inoltre generalmente i bambini più piccoli avevano una dieta migliore di quelli più grandi: è quindi nella prima infanzia che bisognerebbe intervenire. Inoltre, sempre da un punto di vista generale, le donne mangiavano meglio degli uomini, così come facevano le persone con un maggiore livello di istruzione (un dato, quest’ultimo, che spiega perché i produttori di junk food si concentrano proprio sulle fasce più disagiate).
Ma la tendenza, a sorpresa, è al miglioramento, sia pure di assai modesta entità, cioè di 1,5 punti, in cinque delle sette macro aree: in Europa centro-orientale e Asia centrale (+4,6); nei paesi ad alto reddito (+3,2); in Asia sudorientale e orientale (+2,7); in Medio Oriente e in Nord Africa (+2,2); e in America Latina e Caraibi (+1,3). Nessun cambiamento significativo è stato invece osservato in Asia meridionale (0) e nell’Africa subsahariana si è vista una tendenza negativa (−1,1).
Infine, dalle cartine che rappresentano graficamente i dati elaborati, si nota come la qualità migliori nettamente procedendo da ovest verso est, cioè dal continente americano verso l’Asia, con l’Africa che, per ora, mantiene generalmente un livello discreto. Per quanto riguarda gli andamenti temporali, l’orientamento è opposto: i miglioramenti sono stati più marcati in Nord America, rispetto ai paesi asiatici e soprattutto a quelli africani e all’America Latina. E questo, secondo gli autori, è dovuto a una maggiore diffusione delle informazioni, che hanno aiutato le persone a scegliere meglio e a contrastare più efficacemente le patologie associate a un’alimentazione non adeguata.
Naturalmente la conclusione è che bisogna fare molto di più, sia in senso generale, per far salire quel punteggio molto più velocemente di quanto non si sia fatto negli ultimi trent’anni, sia dal punto di vista delle disuguaglianze che, da questi dati, emergono con un’evidenza indiscutibile.
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Giornalista scientifica