Quando si parla di rischi alimentari l’impressione è che dipendano dalla materia prima o dai trattamenti di trasformazione, conservazione, mantenimento della catena del freddo…, e che il consumatore possa farci ben poco.
In realtà le cose non stanno affatto così. Solo l’esercizio vigile e costante del nostro giudizio critico, al momento dell’acquisto del prodotto, durante la sua conservazione e al momento del consumo, può garantirci la “sicurezza alimentare domestica”.
Per alcuni cibi il senso di “irresponsabilità” scatta più facilmente: le conserve industriali. Salse di pomodoro, marmellate, maionese, sottaceti e ketchup riportano sulla confezione un termine minimo di durata, ma il produttore non è obbligato a indicare una data di scadenza dopo che sono stati aperti.
Spesso le aziende aggiungono in etichetta altre informazioni sulla modalità di conservazione e anche indicazioni sui tempi che però a volte risultano diverse tra loro, anche per identiche categorie di alimenti (per esempio intervalli di tempo variabili da 2 a 7 giorni dall’apertura della confezione )
Ecco qualche esempio.
– «Una volta aperto… conservare in frigorifero e consumare entro breve tempo», Confettura Extra Santa Rosa;
– «… conservare in frigorifero alla temperatura di 4° C e consumare entro breve tempo», Confettura Extra Rigoni;
– «…conservare in frigorifero e consumare entro alcuni giorni», Pomì, succhi di frutta Derby;
– «… conservare in frigorifero e consumare entro 3-4 giorni», Passata Cirio, Passata De Rica Provvista di Sugo, succhi di frutta Santal;
– «…conservare in frigorifero e consumare entro 3 giorni», Passata Carrefour, Passata Mutti;
– «… conservare in frigorifero e consumare entro 2-3 giorni», Passata Mutti, Succhi di frutta Carrefour;
– «…conservare in frigorifero e consumare entro 7 giorni», Confettura Carrefour
Messaggi semplici, in apparenza, che però possono creare dubbi al consumatore. Antonio Trifirò della Stazione sperimentale dell’industria delle conserve (Ssica) ribadisce a Ilfattoalimentare.it che per le aziende non esiste alcun obbligo di legge e che molte si autoregolano per scrupolo, dando informazioni ai consumatori che in realtà sono solo consigli d’uso.
A parte la mancanza di una legge ad hoc, c’è un altro aspetto da considerare e che spiega come mai anche per gli stessi alimenti si possano trovare indicazioni e tempi di scadenza diversi. La conservabilità dipende dal processo produttivo, dalla tecnologia e dagli ingredienti utilizzati. Oltre agli additivi, anche la presenza di sale o aceto e le loro dosi possono fare la differenza, perché impediscono o limitano la degradazione batterica dell’alimento, prolungandone la durata.
Fin qui, le caratteristiche intrinseche del prodotto. La variabile esterna sono le condizioni ambientali: una volta che la conserva è aperta, i batteri possono entrare e cominciare a deteriorarlo. Ed entra in gioco la nostra responsabilità di consumatori.
In molti casi, non c’è bisogno di essere dei tecnologi alimentari per capire che il prodotto non va consumato: per esempio, nel caso della passata di pomodoro fa fede il sapore, visto che i processi di degradazione impattano immediatamente sull’acidità e quindi sul gusto, anche se in genere non ci sono problemi sulla salute. Diverso discorso in caso di muffe che, a causa delle micotossine, possono invece essere rischiose: per fortuna sono visibili a occhio nudo e, se ci sono, ci impongono di buttare via l’alimento ormai deteriorato. Anche nel caso dei succhi di frutta il sapore è spia di cattiva conservazione, dal momento che si producono alcol e acido acetico, che si rivelano al palato senza fraintendimenti.
Cos’altro possiamo fare noi consumatori? Usare in modo intelligente il frigorifero. E cioè:
1) Controllare regolarmente la temperatura del frigorifero con un temrometro esterno, e valutare eventuali scostamenti tra quella dichiarata e la temperatura reale.
2) Pulire il frigorifero ogni 2-3 mesi.
3) Cercare di limitare i tempi di apertura dello sportello, per non creare “interruzioni” nella conservazione al freddo.
In futuro, secondo la proposta di regolamento della Commissione Europea sull’informazione in etichetta ai consumatori, alle aziende potrebbe essere richiesta una maggiore precisione sulla durata del prodotto dopo l’apertura «laddove è necessario».
Ma questo aspetto è molto controverso, perché si tratterebbe comunque di indicazioni con una base scientifica difficile da valutare, e che dipendono, oltre che dalle caratteristiche dell’alimento, dal comportamento domestico del consumatore. E allora, in caso di controversia, di chi sarebbe la responsabilità di prodotti conservati male? Del produttore o al consumatore?
Riccardo Rossi
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