Un italiano su tre usa gli integratori: lo sportivo che vuole ridurre la fatica o potenziare la performance, lo studente che desidera migliorare la memoria, i salutisti che cercano di prevenire le malattie stagionali per sé o per i loro bambini o, ancora, chi spera di di dimagrire o di rallentare il decadimento fisico ed estetico dovuto all’età. Risultato: il 32% degli italiani dichiara di assumerli abitualmente e il 62% da oltre due anni, secondo una recente ricerca realizzata da Ac Nielsen per FederSalus, la Federazione dei produttori di prodotti salutistici.
I numeri confermano il boom: un miliardo 311 milioni di euro di fatturato in farmacia più 189 milioni in altri canali di vendita, per un miliardo e mezzo di euro complessivo (il 12,5% in più rispetto al 2008) e 119 milioni di confezioni vendute (7,3% in più rispetto all’anno precedente). Il 33% degli italiani si affidano al fai da te (38.7% uomini e 30.2% donne), decidendo da soli quali integratori assumere e in quali periodi. Ai primi posti nelle vendite ci sono i fermenti lattici, i multivitaminici e i dimagranti. Ma questi prodotti sono davvero utili?
Per rispondere alla domanda, Il fatto alimentare ha intervistato in esclusiva Fabio Galvano, professore associato di scienze dietetiche applicate presso il Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università degli Studi di Catania, in occasione di un suo seminario, intitolato “Rischio-beneficio degli integratori alimentari credenze ed evidenze”, lo scorso 13 gennaio presso l’Istituto Superiore di Sanità a Roma.
Il boom degli integratori alimentari a cosa si deve? Soprattutto a un’abile campagna di marketing o c’è anche un fondamento scientifico?
«In alcuni casi, la sostanza ha effettivamente un’azione consolidata da un punto di vista biochimico, anche se non clinico. Per esempio, si sa che la carnitina effettua il trasporto degli acidi grassi nel mitocondrio della cellula affinché vengano ossidati. Ma questo non significa che assumere carnitina in dosi massicce faccia dimagrire perché si bruciano più grassi stando sdraiati sul divano. Su un effetto biochimicamente dimostrato, il marketing costruisce un’aspettativa abilmente pubblicizzata, e il meccanismo funziona da un punto di vista commerciale. In molti altri casi non c’è nemmeno alcun fondamento di tipo biochimico».
Non crede però che si sia anche il desiderio di rimediare a un’alimentazione colpevolmente frettolosa e abbondante?
«Lei ha centrato il problema: ci sono sensi di colpa da scontare e scorciatoie da trovare. La gente è convinta di poter ottenere da un pillola qualcosa che possa annullare o ridurre i guasti dei vizi: il fumo, la sedentarietà, l’eccesso di cibo… I fumatori sanno che la sigaretta aumenta il fabbisogno di vitamine, ma invece di smettere prendono integratori per liberarsi la coscienza. Il sedentario o la persona soprappeso che non vuole o non può mettersi a dieta o andare in palestra pensa di migliorare la situazione con una pillola “bruciagrassi”: ma in questi casi gli integratori alleggeriscono il portafoglio, non certo il peso corporeo. Occorre anche sottolineare che il concetto di integratore di per sé richiama una carenza: ma la nostra società è mediamente ipernutrita, tanto che c’è una pandemia di obesità e molte malattie sono dovute alla sovra-alimentazione, quindi reali carenze nutrizionali nella popolazione generale sono improbabili».
La gente percepisce gli integratori come sostanze prive di effetti collaterali, anche perché, a differenza dei farmaci non hanno bisogno di prescrizione medica.
«Fortunatamente, nella maggior parte dei casi gli integratori non fanno niente, né in bene né in male. Ma è per questo che vengono messi in commercio con relativa facilità: non c’è bisogno di prove cliniche o tossicologiche, non bisogna nemmeno dimostrare l’efficacia e possono essere acquistati senza prescrizione medica, anche se molti medici – probabilmente troppi – li consigliano. Però non è sempre vero che non abbiano effetti. Qualche anno fa, la rivista scientifica Jama (Journal of the American Medical Association) ha pubblicato uno studio americano sugli antiossidanti che ha fatto molto scalpore. I ricercatori hanno fatto revisionato in modo sistematico tutti gli studi presenti in letteratura per verificare l’aspettativa di vita nei consumatori abituali di integratori antiossidanti. Ma hanno scoperto, non senza una certa sorpresa, che vitamina A ed E e betacarotene possono addirittura aumentare leggermente la mortalità. Certo, negli Stati Uniti c’è un consumo di queste sostanze che non è paragonabile per quantità a quello italiano. Ma è importante capire che gli integratori – per lo più “autoprescritti” sulla base del sentito dire – non sono acqua fresca: se si consumano in quantità modeste sono quasi sempre ininfluenti, ma se si esagera i rischi ci sono. E le esagerazioni non sono impossibili: il consumatore medio, che di solito è solo superficialmente informato, può credere che se una pillola fa bene, due fanno meglio e tre fanno benissimo».
Durante il seminario, lei ha passaro in rassegna una serie di integratori “di moda”: ma il problema generale è che ci sono tanti studi, anche seriamente condotti, ma i risultati non sono univoci.
«Infatti: per dire che un composto fa bene non basta un singolo studio, su animali da laboratorio o su un numero limitato di soggetti. Affinché ci sia evidenza scientifica robusta, ci vogliono molti studi clinici randomizzati in doppio cieco – cioè nei quali né lo scienziato che somministra a caso la sostanza né i pazienti che la assumono sanno se si tratta di un principio attivo o di un placebo, cioè zucchero o acqua fresca – i cui risultati, nel corso di anni e su più soggetti, vanno messi insieme e confrontati: solo alla fine si potranno tirare le somme sull’efficacia della sostanza coinvolta. È anche importante che la revisione sistematica sia fatta da organismi indipendenti, come la Cochrane, che non hanno alcun interesse nella vendita dei prodotti interessati dalle ricerche. È importante anche sapere da chi sono sponsorizzati e a chi giovano gli studi, oltre al modo in cui sono sono condotti».
Ci sono casi in cui gli integratori possono essere davvero utili, per esempio per gli anziani?
«Le persone anziane possono effettivamente avere carenze di nutrienti: perché magari mangiano poco, hanno poche disponibilità economiche e quindi acquistano meno frutta e verdura o carne (ma in questo caso non possono nemmeno permettersi gli integratori), possono avere problemi di malassorbimento, difficoltà a masticare o a deglutire, trascorrono molto tempo in casa e si espongono poco ai raggi solari. Però ciò non significa che debbano affidarsi al fai-da-te: spetta al medico verificare le effettive carenze e prescrivere gli opportuni integratori. Gli antiossidanti, per esempio, per un anziano sono inutili; viceversa, è probabile che calcio e vitamina D siano utili per contrastare l’osteoporosi. Allo stesso modo, gli integratori sono un valido supporto anche in età giovanile o adulta in caso di malattie, degenze ospedaliere, in alcuni casi di diete assai squilibrate, per esempio la vitamina B12 per i vegani che non mangiano carne, pesce, uova o latticini. Sono utili anche in gravidanza, quando, fisiologicamente, c’è un aumentato fabbisogno di alcuni nutrienti, come come l’acido folico o il ferro: ma, di nuovo, spetta al medico prescriverli».
Il betacarotene, popolarissimo tra le signore quando sta per arrivare l’estate per favorire l’abbronzatura, può essere causa di problemi?
«Il concetto è che una persona sana non dovrebbe mai autoprescriversi integratori pensando di farsi del bene, stabilendo da sè il dosaggio giusto. Per quanto riguarda il betacarotene, ci sono vari studi che ne confermano il ruolo positivo quando è ssunto attraverso gli alimenti che ne sono ricchi (vegetali di colore giallo o arancioni). Ma l’American Institute of Cancer Research ha messo in luce tre studi che hanno rilevato come il consumo di integratori di betacarotene può associarsi a un aumentato rischio di tumore del polmone e di carcinoma cellulare squamoso della pelle. Di nuovo, stiamo parlando di alti dosaggi. Ma deve essere chiaro che un conto è prendere una sostanza dal cibo, quando agisce in sinergia con altri microelementi contenuti nell’alimento stesso, un conto assumerla isolata all’interno di una pillola: l’effetto non può essere lo stesso».
Molto popolari tra gli sportivi sono la carnitina e la creatina: nel loro caso, hanno una qualche utilità?
«I benefici della carnitina sono ancora tutti da accertare, anche se non ha effetti tossici. Una revisione degli studi, ha evidenziato che 15 ricerche su circa 300 soggetti hanno dimostrato effetti positivi della supplementazione della dieta degli atleti, ma sono troppo diversi uno dall’altro per essere conclusivi: c’è chi misura l’aumento della massa muscolare, chi una crescita del consumo dei grassi, chi una protezione dai danni muscolari e così via, quindi non è possibile tirare realmente le somme. Ci sono poi altri studi, con 70 soggetti coinvolti, nei quali invece la carnitina non ha avuto alcun effetto. Inoltre, gli scienziati spesso non pubblicano risultati negativi, quando cioè la ricerca non ha confermato le loro aspettative: quindi è possibile che molti altri studi non abbiano verificato alcun effetto, ma non ne abbiamo notizia. Possiamo concludere che per quanto riguarda gli atleti, occorrono ulteriori approfondimenti per sapere se la carnitina è davvero utile. Ma già adesso possiamo dire che di sicuro non serve allle persone sedentarie e sovrappeso per dimagrire, come invece vorrebbe il marketing. Sulla creatina, invece, ci sono delle evidenze positive sull’incremento della forza, della massa muscolare e e che la rende efficace per certi tipi di sport che prevedono sprint o salti ripetuti, mentre è ancora dubbia l’efficacia sulle attività aerobiche di lunga durata, sulla riduzione del grasso corporeo e sull’aumento della densità ossea. Ma vorrei sottolineare che ci si riferisce agli sportivi, non a chi fa la partitella settimanale di calcetto o di tennis».
La panacea per tutti i mali – dalla prevenzione delle patologie cardiovascolari ai tumori – sembrano essere gli acidi grassi omega 3. È davvero così?
«Gli omega 3 hanno dei benefici clinicamente dimostrati sul sistema cardiovascolare. Non c’è dubbio che facciano bene, come dimostra il paradosso eschimese. Le popolazioni che vivono tra i ghiacci mangiano, da sempre, secondo regole contrarie a quelle della nutrizione sana: grande introito di proteine e grassi animali (dal pesce) e scarsa presenza di fibra, vitamine e minerali (da frutta e verdura), eppure hanno una bassa incidenza di malattie cardiovascolari. Gli studi hanno dimostrato che questo paradosso dipende da una dieta ricca di acidi grassi omega 3 (che abbondano nei pesci) e povera di acidi grassi omega 6 (contenuti negli oli di seme).
Omega 6 e omega 3 condividono lo stesso tipo di metabolismo: se li assumiamo entrambi, entrano in competizione. Il problema è che nella nostra dieta abituale i grassi omega 6 abbondano, perché gli oli di semi sono molto utilizzati dall’industria alimentare. Quindi assumere integratori di omega 3 potrebbe essere del tutto inutile. La dieta dei nostri progenitori, nel paleolitico, aveva un rapporto di acidi grassi omega 6 e omega 3 che era 2:1; oggi nella dieta italiana sono saliti a 20-25:1, mentre il rapporto ottimale dovrebbe essere 5-6:1. Occorre anche osservare che le popolazioni eschimesi si sono evolute per decine di migliaia di anni con una dieta ricca di omega 3 e povera di omega 6: niente a che vedere con chi, nel contesto di un’alimentazione del tutto differente, magari a 50 anni comincia ad assumere integratori che contengono queste sostanze».
In definitiva, gli omega 3 servono o no?
«Gli omega 3 abbassano i trigliceridi nel sangue, effetto ampiamente dimostrato, tanto che la Fda ne ha autorizzato la vendita per questo scopo che può essere anche scritto sull’etichetta dell’integratore. Molta gente, però, li prende perché è convinta che abbassino il colesterolo, per colpa di una cattiva informazione che facilita la confusione. Dal mio punto di vista, gli omega 3 nella dieta andrebbero aumentati mangiando pesce due-tre volte alla settimana, mentre andrebbero ridotti gli omega 6 utilizzando solo olio d’oliva per condire e cucinare e diminuendo la quota dei cibi industriali. Senza criminalizzazioni, variando il più possibile l’alimentazione e leggendo con attenzione le etichette per capire se contengono oli di semi».
Però c’è chi obietterebbe che il pesce apporta anche metalli pesanti, come il mercurio: una pillola, che contiene acidi grassi omega 3 depurati, non è più sicura?
«Il rischio c’è. Tuttavia la rivista Jama ha pubblicato uno studio secondo il quale il mercurio contenuto nel pesce potrebbe solo “modestamente” diminuire i benefici derivanti dall’assunzione di pesce, che sono largamente superiori ai rischi. Per minimizzarli, è opportuno variare la qualità e la taglia del pesce che acquistiamo, dando preferenza al pesce azzurro che è il meno contaminato, a differenza di pesci molto grandi, per esempio il tonno, che va consumato con più moderazione».
Che conclusioni possiamo trarre?
«Le evidenze scientifiche a favore dell’uso degli integratori sono limitare a poche patologie, stati di carenza nutrizionale o aumentato fabbisogno fisiologico. L’uso ingiustificato e incontrollato di queste sostanze può avere dei rischi, perciò prima di assumerli è sempre necessario chiedere almeno un parere al proprio medico. Gli intergatori, in ogni caso, non possono mai sostituire gli alimenti, in particolare la frutta e la verdura che dovremmo mangiare almeno 5 volte al giorno. Infine, l’integratore non può essere l’alibi per evitare di adottare una dieta variata ed equilibrata o per esimersi dall’attività fisica».
Mariateresa Truncellito
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