Sono circa 40 i casi fatali di shock anafilattico che si verificano in Italia ogni anno. Di questi più o meno la metà sono causati da allergie alimentari. L’altra metà è provocata da punture di imenotteri, come api, vespe e calabroni. Quasi sicuramente però questo dato è sottostimato perché raccoglie soltanto i casi che balzano agli onori della cronaca, mentre altri sfuggono alle statistiche perché, oltre a mancare una sorveglianza nazionale (ne abbiamo parlato anche in questo articolo), spesso gli eventi di anafilassi non vengono riconosciuti o non vengono classificati come tali dal personale di pronto soccorso. Lo spiega a Il Fatto Alimentare Antonella Muraro, allergologa, direttrice del Centro di Specializzazione Regionale per le allergie e le intolleranze alimentari dell’Azienda Ospedaliera-Università di Padova e membro del comitato scientifico dell’associazione Food Allergy Italia.
La mancanza di dati certi sulle morti per shock anafilattico è solo una delle conseguenze della frammentazione regionale della gestione delle allergie alimentari in Italia. “Questa situazione determina una disuguaglianza geografica nell’accesso dei farmaci salvavita per i pazienti allergici,” spiega Muraro. L’Agenzia europea dei medicinali (Ema) raccomanda di fornire due auto-iniettori di adrenalina a tutti i pazienti a rischio, ma in Italia non è così. Questo perché in alcuni casi un solo auto-iniettore può non essere sufficiente: il dispositivo può non funzionare, oppure nell’agitazione del momento la persona allergica può sbagliare a iniettare l’adrenalina. In alcuni casi è necessario effettuare una seconda somministrazione perché una sola non basta, come nel caso di reazione anafilattica bifasica (ricorrenza dei sintomi ore dopo l’esposizione all’allergene).
In Italia, nonostante l’indicazione dell’Ema del 2017 sia stata recepita dall’Aifa, l’accesso ai farmaci salvavita resta ancora frammentato, con differenze a seconda delle Regioni e delle aziende sanitari, responsabili ultime dell’implementazione delle raccomandazioni. “Solo alcune regioni, come Veneto e Lombardia, garantiscono due auto-iniettori di adrenalina – spiega Muraro – e solo a pazienti particolarmente a rischio, secondo criteri individuati sulla base del piano terapeutico del singolo individuo”. Per questo, lo scorso ottobre Food Allergy Italia ha lanciato una petizione per chiedere di garantire a tutte le persone allergiche la fornitura gratuita di due auto-iniettori e di facilitare l’accesso ai farmaci salvavita, riclassificandoli dalla Fascia H (farmaci distribuiti dalle farmacie ospedaliere su prescrizione medica) alla Fascia A (disponibili gratuitamente nelle farmacie territoriali).
Questa frammentazione territoriale si riflette anche nell’educazione dei ristoratori e delle ristoratrici alla corretta gestione degli allergeni in cucina, che possono contare solo su iniziative locali di formazione, che non sempre offrono garanzie di affidabilità e accuratezza. “C’è la necessità – afferma Muraro – di istituire un gruppo di lavoro multidisciplinare per creare corsi di formazione certificati sulla gestione delle allergie alimentari nella ristorazione che abbiano una struttura comune e omogenea a livello nazionale, da adattare poi alle singole realtà locali”. Chi gestisce la cucina di un ristorante di una località di montagna, si troverà a lavorare con ingredienti diversi di chi lavora in una città di mare. “L’ideale sarebbe creare corsi regolari sia online, sia itineranti in presenza per raggiungere il maggior numero possibile di gestori di ristoranti”.
“Sarebbe utile anche stilare un decalogo dei diritti e dei doveri dei ristoratori e dei clienti allergici – continua Muraro – che stabilisca con chiarezza come devono comportarsi le due parti nella gestione dell’allergia alimentare” Ad esempio, mentre le persone allergiche dovrebbero comunicare con chiarezza la propria condizione (oltre a portare sempre con sé i farmaci salvavita), il gestore del ristorante dovrebbe essere in grado di identificare le situazioni in cui c’è un alto rischio di contaminazione da allergeni, per poterlo eliminare, o almeno ridurre. E per poterlo fare efficacemente, è necessario partire da una maggiore consapevolezza degli ingredienti con cui si lavora. Se non si conoscono gli allergeni presenti nella materia prima e, soprattutto, nei semilavorati, il rischio di incidenti e contaminazioni crociate è dietro l’angolo. Sarebbe anche utile insegnare al personale dei ristoranti come riconoscere i sintomi di una reazione anafilattica, in modo da intervenire con maggiore tempestività. “L’ideale – sostiene Muraro – sarebbe richiedere ai gestori di avere nel kit di pronto soccorso anche un auto-iniettore di adrenalina, come già in atto per il defibrillatore”. Una soluzione difficilmente praticabile in assenza di una legislazione appropriata che includa anche l’indispensabile formazione.
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
Tutte iniziative di buon senso e praticabili
per conoscenza del settore affermo che non si parte da zero ma la situazione è certamente (doverosamente) migliorabile.
in merito al “Sarebbe utile anche stilare un decalogo dei diritti e dei doveri dei ristoratori e dei clienti allergici” trovo che questo sia un punto importante perchè mentre i ristoratori sono comunque (giustamente) sottoposti al rispetto di procedure ed alla comunicazione al consumatore sul pericolo del rischio allergeni al cliente/consumatore quest’ultimo sembra portatore solo di diritti.
Un esempio: la signora che , nella famosa località rivierasca, entra nel famoso ristorante di pesce ed annuncia “sono allergica al pesce!” al che il proprietario propone subito un primo con le verdure (esempio); ma io mi chiedo sempre “che ci è venuta a fare in questo ristorante?”
e gli esempi potrebbero moltiplicarsi….
Signor Paolo, credo che quell’episodio sia stato molto spettacolarizzato dai mass media, ogni ristorante, a PRESCINDERE dalla propria area di “specializzazione”, in questo caso, specialità a base di prodotti della pesca o pesce, dovrebbe, proporre menù alternativi a tutti i potenziali clienti, anche a quei clienti che non sarebbero tipicamente, ad una prima vista o opinione, clienti del ristorante.
La signora ha fatto benissimo a manifestare la sua situazione, ed il ristoratore, che eroga un servizio di importanza sociale, ha proposto un alternativa, come è suo dovere, e come in effetti dovrebbe fare, poichè altrimenti si potrebbe pensare che si pongano in essere delle discriminazioni…
Mio figlio ha avuto uno shock anafilattico a causa di una terapia desensibilizzante preparata da nota azienda farmaceutica, esclusivamente per lui. Nonostante tutte le precauzioni, il fattaccio è accaduto. Per fortuna, essendo in ambiente medico si sono adottaii i provvedimenti del caso, e gli è rimasto solo il brutto ricordo ( a me che ho assistito, sono venuti i capelli bianchi). Non si scherza con le allergie, si richia troppo.
Si torna sempre alla base, ovvero alla “formazione” che deve essere concreta e svolta da specialisti. Se solo questo principio fosse garantito per la formazione in materia di sicurezza alimentare, quindi compresa la problematica allergeni, richiesta e necessaria per le aziende e non solo, sarebbe già un grande passo avanti. In mancanza di norme chiare che identificano quali competenze e conoscenze debba avere (e dimostrare di avere) un formatore ci troveremo sempre di fronte a chi fa della formazione un business fine a se stesso, dove la teoria e la pratica non si incontreranno mai. Serve chiarezza, competenza e vigilanza!
Sempre articoli di grande interesse su temi trattati poco dai più