Il falso mito del cibo “100% italiano”. Il nostro Paese non è autosufficiente e importiamo grandi quantità di grano, legumi, latte e carni bovine
Il falso mito del cibo “100% italiano”. Il nostro Paese non è autosufficiente e importiamo grandi quantità di grano, legumi, latte e carni bovine
Eleonora Viganò 3 Dicembre 2013L’Italia nel settore alimentare non è autosufficiente e deve importare grandi quantità di materie prime dall’estero. Una situazione ben conosciuta dagli addetti ai lavori, ma meno nota al grande pubblico, che vorrebbe sempre comprare cibo “made in Italy”. Questa mancanza si traduce nella necessità di importare ingredienti da trasformare in prodotti finiti destinati sia al consumo interno sia all’esportazione. Un rapporto firmato da Coop e pubblicato sulla rivista “Consumatori” cerca di fare chiarezza.
Il dossier sfata il mito del prodotto preparato con materie prime al 100% italiane. Il nostro Paese non riesce a produrre tutte le risorse di cui ha bisogno sia a causa di politiche restrittive dell’Unione Europea, sia per la diminuzione dei terreni destinati all’agricoltura. Secondo dati raccolti da Coop, dal 1970 a oggi gli ettari di superficie coltivabile sono scesi da 18 a 13 milioni, mentre la popolazione è cresciuta del 10%. L’importazione è indispensabile per produrre molti altri alimenti tipici del made in Italy.
L’esempio della pasta è istruttivo: il grano duro italiano copre solo il 65 % del fabbisogno, occorre importare frumento da Paesi come Canada, Stati Uniti, Sudamerica. Anche per il grano tenero vale la stessa cosa poiché il prodotto interno copre solo il 38% di ciò che richiede il settore, con importazioni da Canada, Francia, ma anche Australia, Messico e Turchia. Non cambia la situazione per altre categorie merceologiche: le carni bovine italiane rappresentano il 76% dei consumi e per il latte si scende addirittura al 44%, anche per lo zucchero e il pesce fresco dobbiamo rivolgerci ad altri mercati poiché riusciamo a coprire solo il 24% e il 40% del consumo interno. Lo zucchero viene soprattutto dal Brasile, mentre il pesce da Paesi Bassi, Thailandia, Spagna, Grecia e Francia, oltre a Danimarca ed Ecuador.
Anche la maggior parte dei legumi non sono italiani, a causa di drastiche riduzioni delle coltivazioni a partire dagli anni ’50. Adesso le importazioni provengono principalmente da Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, ma anche da Medio Oriente e Cina. Quest’ultimo Paese è diventato il primo fornitore italiano a seguito della siccità che ha colpito l’Argentina.
Dobbiamo ricordare poi l’annosa questione del pomodoro. Premesso che tutto il pomodoro venduto sugli scaffali è italiano, dalla Cina importiamo triplo concentrato di pomodoro, che viene lavorato e esportato in altri Paesi. Siamo invece autosufficienti per quanto riguarda riso, vino, frutta fresca, pomodoro, uova e pollo. Solo in questi casi abbiamo la quasi totale certezza di comprare un prodotto made in Italy al 100%.
La situazione per il cibo trasformato è opposta: produciamo il 220% della pasta rispetto al fabbisogno interno, che viene esportata, 4 volte la quantità di spumante consumato, mentre per i formaggi questa percentuale è pari al 134% ( vedi tabella Coop sotto). L’importazione della materia prima diventa nel caso della pasta indispensabile per poter produrre quantità ingrado di soddisfare le richieste del mercato.
Alcuni esempi rischiano anche di sorprendere: alcuni prodotti correlati al territorio come quelli IGP (Indicazione Geografica Protetta), sono in realtà il risultato eccellente della lavorazione di materie prime non italiane. La bresaola proveniente dalla Valtellina viene preparata con carne argentina o del sud america. La Valtellina offre un ambiente ottimo per la stagionatura e la lavorazione del prodotto, ma non dispone di allevamenti in grado di fornire l’ingrediente di base (17 mila tonnellate l’anno di cui 11 mila di prodotti Igp).
Alla luce di questi dati la ricerca insistente dell’alimento fatto solo con materie prime italiane ha poco senso, tranne per alcune categorie merceologiche dove siamo autosufficienti. Per questo motivo Coop ha deciso di fare conoscere ai clienti l’origine degli ingredienti dei suoi prodotti attraverso la rete. Il sistema, che abbiamo già descritto in un articolo, è molto semplice: basta collegarsi al sito della Coop e digitare il nome del prodotto o utilizzare il codice a barre di ciò che abbiamo acquistato. Se proviamo a scrivere la parola “pasta” troveremo decine di voci, dalla pasta di semola a quella all’uovo. Alcune sono fatte con materie prime italiane al 100%, altre invece sono ottenute con grano importato da Australia, Canada, Francia e Stati Uniti.
La provenienza di materie prime dall’estero non è sinonimo necessario di scarsa qualità: la sicurezza dipende dai controlli e dal rispetto delle regole. È più importante poter potenziare gli strumenti che garantiscono la qualità di un prodotto o di un ingrediente, a prescindere dalla sua provenienza geografica, piuttosto che ricercare l’italianità a tutti i costi, anche quando non è possibile.
© Riproduzione riservata. Tabella: Coop. Foto: photos.com
[sosotieni]
redazione Il Fatto Alimentare
Era tanto che speravo di leggere qui un articolo di questo genere che spiegasse questi concetti fondamentali.
Se ne sentiva il bisogno vista la confusione e le teorie complottiste che animano di solito le discussioni sull’argomento. Complimenti alla dottoressa Viganò e a chi ha collaborato all’articolo.
Segnalo soprattutto due frasi: “Alla luce di questi dati la ricerca insistente dell’alimento fatto solo con materie prime italiane ha poco senso, tranne per alcune categorie merceologiche dove siamo autosufficienti.” e
La provenienza di materie prime dall’estero non è sinonimo necessario di scarsa qualità: la sicurezza dipende dai controlli e dal rispetto delle regole. È più importante poter potenziare gli strumenti che garantiscono la qualità di un prodotto o di un ingrediente, a prescindere dalla sua provenienza geografica, piuttosto che ricercare l’italianità a tutti i costi, anche quando non è possibile”.
Spiace solo che la gran parte degli organi di informazione continuerà demagogicamente a voler convincere i consumatori del contrario…
Complimenti. Un articolo ben fatto. Oggettivo. Che fa strage delle folcloristiche manifestazioni al Brennero
A supporto un altro interessante articolo.
2 articoli in due giorni…che il vento stia cambiando?!
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-12-04/l-ultima-trasformazione-arte-made-italy-063832.shtml?uuid=ABr9zkh&p=2
ottimo articolo! complimenti. E’ ben noto che siamo una società di trasformazione di prodotto, non siamo mai stati una società da industria primaria. Speriamo che questo articolo illumini il consumatore legato a situazioni alimentari oramai arcaiche e non proponibili e si indirizzi verso altre valutazioni di qualità. Richiedendo e insistendo su queste valutazioni, verrà forse superata la bufala legalizzata esistente “dell’ultima trasformazione sostanziale” dell’alimento per definirne l’origine ad esempio Italiana.
Anch’io non vedevo l’ora di leggere questo rigo:” Il nostro Paese non riesce a produrre tutte le risorse di cui ha bisogno sia a causa di politiche restrittive dell’Unione Europea “.
Questa è l’Europa, bellezza.
Poteva almeno citarlo tutto il rigo, è importante anche la seconda parte.
Il mercato non è quello “di una volta”. A me sembra paradossale pretendere che l’Italia investa in agricoltura per competere con i territori utili alla coltivazione e allevamento di Argentina, Canada, USA, Russia, Ucraina, Cina, etc…sarebbe oltretutto un percorso lungo che porterebbe a benefici (?) risibili. Ma se almeno fosse supportato da un’oggettiva qualità superiore delle materie prime… Invece non è così, non siamo certo l’Eden e sarebbe meglio smettere di pensare di esserlo. Anche se è molto meno romantico di quello che si vorrebbe.
Sono altri i settori in cui l’Italia dovrebbe investire…che poi il nostro Paese si dimostri incapace di investire in alcunchè, purtroppo, è un altro discorso.
Che poi le “politiche restrittive dell’Unione Europea” son sempre servite a limitare la produzione per evitare io crollo dei prezzi (questo insieme agli ingenti aiuti della PAC e alle barriere tariffarie e non tariffarie all’import da fuori europa)
Bravo Lettore…sono d’accordo e sfrutto le tue parole per rispondere e renato che dice che non siamo mai stati una società da industria primaria: tanto è vero che nonostante le restrizioni europee noi siamo secondi solo alla spagna in fatto di produzione di olive (se non siamo industria primaria!)ribadisco nonostante l’europa scoraggi la produzione con il suo sistema di falsi incentivi….nonostante l’europa finanzi lo sdradicamento delle viti il nostro vino continua a far furore all’estero….vogliamo parlare delle mandorle?……di tutte le colture che la nostra agricoltura ha dovuto abbandonare per gli accordi commerciali che governi dissennati facevano con altri stati per avvantaggiare la nostra industria (cha poi, incassati gli aiuti ha pensato bene e pensa di andarsene)…devo ricordare che l’Italia per anni è stata la prima produttrice al mondo di kiwy (questo lo sanno veramente in pochi) e potri dilungarmi….ma come si fa a dire che “l’italia non è mai stata società da industria primaria” …..mio Dio!
Andrebbero introdotti di nuovo i dazi doganali.
Alle folcloristiche manifestazioni del Brennero la Finanza ha bloccato tir che trasportavano prosciutti tedeschi con la bandiera italiana, frollini tedeschi spacciati per italiani, mozzarelle di Amburgo e grano austriaco, tutti rigorosamente con la bandiera italiana.
Le frodi giustamente devono essere represse. Sia quelle estere che quelle italiane.
Ho letto con interesse l’articolo, molto preciso.
Vorrei segnalarvi che recentemente mi hanno regalato alcuni prodotti alimentari di cui ho potuto conoscere in modo completo la filiera di produzione (Comune di produzione, l’origine dei semi, se sono stati utilizzati concimi e diserbanti e, se si, quali, etc.etc.) grazie al modello di etichettatura ad essi applicato, denominato Etichetta Trasparente Pianesiana.
Vi suggerisco di approfondire l’argomento, se non lo avete ancora fatto, perchè credo che sia una risposta concreta a tanti problemi, sollevati anche da questo articolo, di cui di questi tempi si discute molto ma che ancora non stanno trovando soluzione.
Grazie per la segnalazione, ho cercato su internet: molto interessante e aggiungo che dovrebbe essere la normalita’. Con un misto di pena e di disprezzo replico a chi compra cibo senza leggere l’etichetta e poi fa la radiografia delle caratteristiche del cellulare prima di sceglierlo.
Non siamo autosufficienti in molti casi a causa dai prezzi molto bassi dei prodotti che arrivano dall’estero. E’ il caso ad esempio dei legumi, che potrebbero essere coltivati in misura nettamente maggiore se la distribuzione fosse disposta a pagarli il giusto.
La ricerca del prodotto fatto con sole materie prime italiane ha molto senso oltre che un grande futuro che garantirà crescita ai nostri territori.
Saremo infine anche non autosufficienti ma oggi produciamo molto meno di quello che potremmo e questo solo a causa dei prodotti a basso costo che arrivano dall’estero. Se da un lato non è legittimo impedire le importazioni, dall’altro è doveroso pretendere che il prodotto di provenienza estera non venga venduto come italiano. Può sembrare banale ma cambierebbe molto per la nostra economia.
Molto schematicamente: prezzo minore non significa minore qualità.
Che un prodotto estero venga venduto come italiano nessuno lo vuole. C’è sempre quel piccolo problema di definire il termine “italiano”.
Grano italiano vuol dire: coltivato da sementi italiane, utilzzando prodotti fitosanitari italiani? carne italiana vuol dire capi nati in italia, alimentati con mangimi italiani realizzati con materie prime italiane e sementi italiane?
Oppure come mi pare di capire, interrompiamo la filiera dell’italianità dove ci fa più comodo fermarla? Bisognerebbe essere chiari su questo. Anche Coldiretti che manifesta al Brennero dovrebbe essere chiara su questo, no?
E continuo: la Bresaola della Valtellina IGP è italiana anche se le carni non lo sono…E’ un dato di fatto, visto che parliamo di una IGP. Però poi vogliamo sostenere che la pasta realizzata in Italia, italiana non è perchè parte del grano viene dall’estero?
Per me l’ unico problema è la chiarezza se in Valtellina fanno la Bresaola IGP con carne sudamericana (alcuni) e altri usano la carne nazionale, dovrebbe essere scritto sulla confezione. Questo perchè il consumatore potrebbe essere disposto a pagare di più per un prodotto 100% italiano. Al contrario potrebbe giudicare non congruo pagare tanto una bresaola fatta con carne sudamericana che attraversa l’ oceano e costa meno. Noto poi una contraddizione generata dall’ interesse dell’ industria alimentare a livellare la qualità dei prodotti verso il basso. Si vuole insomma far passare la favoletta che noi siamo bravi trasformatori e che non ha importanza da dove arriva la materia prima. Nel mondo del cibo, soprattutto quello ad alto valore aggiunto che l’ Italia dovrebbe tutelare, chi alleva come e dove, chi coltiva come e dove vale molto; vale così tanto che l’ industria non vuole farlo sapere. Allora se in Italia c’è un deficit di produzione di materia prima, dovrebbe essere nostro interesse favorire la creazione e coltivazione di altre produzioni. Per combattere l’ Italia sounding bisogna cominciare noi a non farlo.
Da quello che scrive mi pare di capire che secondo lei, poichè la carne bovina argentina ottenuta da allevamenti di tipo estensivo costa meno di quella italiana allora è meno pregiata? E che quindi il consumatore dovrebbe invece preferire una carne ottenuta da allevamenti in stalla italiani perchè costa di più ed è quindi migliore?
Nello scenario che lei configura alla fine accadrà proprio questo: il consumatore acquisterà prevalentemente i prodotti le cui materie prime hanno origine italiana. Li pagherà naturalmente di più e sarà evidentemente felice di farlo perchè in cambio avrà la “garanzia dell’italianità”. Per contro non avrà però NECESSARIAMENTE una qualità superiore del prodotto che compra. Anzi, le aziende potrebbero benissimo comprare materie prime più scadenti, purchè di origine italiana, contando sul fatto che, per il consumatore medio, il solo fatto che siano di origine italiana si di per se un valore aggiunto. Quindi perchè acquistare un ottimo grano canadese (e con questo non dico che TUTTI i grani canadesi lo siano) quando posso comprare un pessimo grano italiano (e con questo non dico che TUTTI i grani italiani lo siano) per realizzare un prodotto che a me costa di meno e lo posso far pagare di più? Se non è questo un livellare la qualità verso il basso!!
Singolari teorie le sue Alessandro. Sono le regole e i sistemi di produzione a far si che il prodotto italiano sia di maggior qualità e più costoso.
All’estero mica si fanno tutti i problemi che ci facciamo noi sull’uso di pesticidi, sul benessere animale e sulla tutela dell’ambiente.
“Stranamente” non viene fatto neanche un accenno all’olio di oliva. Mah!
Sig. Zaccaria, lei avrà sicuramente dei dati che dimostrano che il nostro sistema paese è il migliore, rispetto al resto d’Europa e del Mondo e sarei interessato a leggerli…
Parlando del benessere animale: le ricordo a titolo di esempio, che l’Italia è stato tra gli ultimi paesi (stranamente!) a recepire la direttiva UE che prevede che non possano più essere commercializzate da gennaio 2012 uova ottenute da galline allevate in gabbia. La maggior parte dei paesi UE si è organizzata per tempo e si è allineata alla normativa con mesi di anticipo. In Italia, ancora ad inizio 2013, secondo un articolo del Fatto Alimentare di febbraio, il 70% delle galline viveva ancora in gabbie illegali. Nei “selvaggi” paesi esteri, come ad esempio la Svizzera, l’allevamento in gabbia è vietato dal 1992…
I limiti dei prodotti fitosanitari sono decisi a livello europeo.
Pensare poi che ad esempio in Romania i controlli siano meno efficaci e le regole meno osservate che da noi lo trovo un filino razzista. Anche perchè poi si deve fare i conti ad esempio col fatto che i frutti di bosco attraverso i quali si sta diffondendo l’epidemia di epatite A non sono solo rumeni, ma sono anche italiani…
O che nonostante la presunta eccellenza delle nostre regole e sistemi richiamata dal sig. Zaccaria, siamo in difficoltà nel gestire efficacemente un’allerta alimentare (e gli esempi si sprecano qui sul Fatto Alimentare), anche per le lacune dei nostri “eccellenti” organi di vigilanza…
Faccia più attenzione Alessandro quando scrive riferendosi ad altri perchè io non ho mai parlato ne di controlli ne di regole meno osservate. Arrivare a parlare di razzismo è abominevole.
In Europa le regole di produzione non sono uguali per tutti e in Italia abbiamo sicuramente quelle nel complesso più responsabili e restrittive.
Per restare in Europa le logiche di produzione che hanno portato ad esempio all’encefalopatia spongiforme bovina o ai polli e uova alla diossina, dovrebbero far riflettere.
Se fossero infine così di qualità le materie prime straniere perchè non dichiararle apertamente e confonderle con quelle italiane?
Voglio spiegarmi sul razzismo perchè in effetti può essere frainteso. Non intendevo dire che lei è razzista naturalmente e se non era chiaro prima lo specifico ora. Il mio discorso era generale riferito a tutte le volte che qui ho letto frasi tipo: “ah era carne rumena”, oppure “ah, sono frutti di bosco bulgari”…a sottintendere l’inferiorità di tali prodotti data dalla loro provenienza. Poi scoprire che lo stesso problema c’è pure nei frutti di bosco italiani ti riporta sulla terra e ti fa capire che non è la provenienza il punto critico, ma la serietà e l’attenzione di chi la raccoglie e di chi li lavora. Non si può certo pensare che serietà e attenzione siano solo prerogativa degli italiani.
Lei scrive: “In Europa le regole di produzione non sono uguali per tutti e in Italia abbiamo sicuramente quelle nel complesso più responsabili e restrittive”. Ammettiamo che sia vero: ciò non significa che siano automaticamente rispettate. Ammiro il suo ottimismo, ma mi permetta di essere scettico se poi penso alla situazione drammatica della “Terra dei fuochi”…Anche quella rientra nell’eccellenza delle nostre regole e sistemi di produzione?
In Europa c’è stata la BSE, c’è stata la diossina…anche noi abbiamo dato il nostro contributo con il vino al metanolo, la mozzarella alla diossina…
Ripeto: il consumatore non è tutelato con una bandierina sull’etichetta. E’ tutelato quando da la preferenza a chi lavora seriamente utilizzando materie prime di qualità per ottenere prodotti di qualità. Senza bandierine.
All’ultima sua domanda è stato risposto più volte. Purtroppo il fatto che questo argomento sia trattato già in almeno 4 articoli del Fatto Alimentare non rende possibile discuterne in modo organico e i concetti vengono spezzettati in più discussioni.
Dico solo che: se in TV raccontano che la nostra semola è la migliore, il nostro frumento è il migliore, il nostro latte è il migliore, la nostra carne è la migliore, potremmo andare avanti all’infinito, tutto ciò che facciamo noi è migliore (sono convinto che anche il cacao sarebbe spacciato come il migliore) è ovvio che il consumatore medio ci creda. Anche perchè è più facile far credere alle persone quello che loro stesse vogliono credere. Finchè alla base della decisione di acquisto non c’è la qualità del prodotto, ma l’origine dello stesso, che senso ha dichiarare che il grano che uso è canadese per perdere quote di vendita?
Quando (e se) l’origine sarà obbligatoria, sarà interessante vedere come tutti quelli che fino al giorno prima hanno acquistato con soddisfazione pasta di qualità smetteranno di comprarla derubricandola a pasta di serie B perchè la semola è fatta con grano estero! Ce la prendiamo sempre col marketing…eppure stiamo qui a correre dietro ad una bandierina…
Bello il dibattito ma non complichiamone i contenuti.
Se posso permettermi sintizzerei la questione in pochi concetti:
1)con le sole materie prime italiane non ci riempiamo la pancia.
2) la qualità non è di parte, è qualcosa di ben misurabile che non appartiene solo all’Italia.
3) ciò non toglie che il consumatore possa esprimere delle preferenze, importante che sia chiara la distinzione fra campanilismo e obiettività.
4) è giustificabile la richiesta del consumatore campanilista di conoscere la provenienza delle merci per esercitare la sua preferenza all’acquisto.
5) non è giustificabile indurre il consumatore alla scelta con insostenibili discriminazioni qualitative.
Detto questo mi rendo conto che parliamo di un percorso poco percorribile.
Mi sembra di glorificare i bei tempi passati delle pance vuote quando il pane non era mai raffermo perchè non aveva il tempo di diventarlo (anche se fatto col grano del piano Marshall).
Ora chiediamo il cestino di fragole fresche a Natale e qualcuno pone il problema se sia più sostenibile coltivarle in serre riscaldate in pianura padana piuttosto che farle viaggiare dal Marocco dove sono cresciute riscaldate dal sole.
A naso non avrei dubbi perlomeno in termini di Carbon footprint, poi pazienza, non saranno italiane ma mi piacerebbe sapere da dove provengono, solo per poter scegliere o non scegliere con cognizione di causa o per campanilismo.
Ecco, penso sia questo il punto cruciale:
libertà(non dovere) del produttore di informare “onorevolmente” sull’origine (limitatamente per quanto può essere correttamente possibile) e diritto del consumatore di fare di quell’informazione l’uso che più ritiene opportuno.
Chiedo troppo?
Sarebbe tutto perfetto se a fronte di ciò ci fosse corretta informazione. Ma se i mass media generalisti propagandano la superiorità delle materie prime italiane “a prescindere” sulla sola base dell’origine è chiaro che il consumatore farà di quell’informazione quello che ritiene opportuno col piccolo particolare che l’informazione di cui dispone è quantomeno parziale. Se si smettesse di dire che abbiamo il grano migliore del mondo, che abbiamo il latte migliore del mondo, che qualunque cosa coltiviamo e alleviano sia la migliore del mondo…che il nostro sistema di regole e controlli è il migliore del mondo (come se la terra dei fuochi non fosse in Italia…) e si fosse più obiettivi…
Alcune precisazioni. Se italia non è autosufficiente è anche perchè abbiamo perso 5 milioni di ettari agricoli (di cui 1 solo negli ultimi 10 anni, pari ad una regione come la Lombardia). Prezzi troppo bassi pagati agli agricoltori e margini che calano paurosamente. Vi posto i dati ufficiali Ismea e Istat. La scusa della non autosufficienza faccio notare, viene usata anche da quelle industrie che speculano su prezzo grano pugliese, lasciando bastimenti nei porti proprio durante la raccolta del grano, per abbassare i prezzi. Cose arcinote e documentate. La non autosufficienza è il risultato, non la causa.
2. A fronte di questo, che gli standard non siamo sempre uguali è arcinoto. L agricoltura italiana costa per tanti adempimenti e per standard tra le altre cose. Mentre l industria globale vuole prezzi sempre piu bassi. E quella italiana spesso anziché farsi alleata nella battaglia qualità, a ben vedere unica salvezza per nostro paese, vuole contenere i costi in una logica di breve periodo. Faccio incidentalmente notare che in base a norma italiana del 2005 “prosciutto crudo nazionale” (che nazionale puo non essere, con inganno del consumatore) ammette additivi, nitrati e nitriti nonchè zucchero non ammessi nel circuito Dop. Ma il consumatore queste cose non le sa. E la crisi morde.
3. La realtà è che _si dice_serve un patto.di filiera. Belle parole. Faccio notare che attualmente la Commissione suinicola nazionale che dovrebbe servire al proposito, sta fallendo clamorosamente. E non certo per colpa degli allevatori, costretti da un lato a investimenti onerosi per ampliare strutture, ad aumento costo mangimi per prezzi globali in crescita e prezzi loro pagati di anno in anno piu bassi.IDEM a livello europeo con il framework volontario di buone prassi commerciali che non vede partecipare né agricoltori copa cogeca né uecvb, quindi….industria carne.
In ultimo faccio notare che si confrontano prodotti non confrontabili come prodotti primari e invece Igp che sono di trasformazione, il che spiega le diverse performance. Non lamentiamoci del falso made in italy se poi a livello legale le Igpsono talvolta fatte occultando origine.reale vendendo italianità. E l industria deve decidersi: immagine italiana (spesso reclamizzata, questo sì,el mktg e spot) o costi globali.
Rispondo all’ultima considerazione, visto che la Bresaola la cito spesso.
Il confronto che viene fatto è tra pasta e Bresaola IGP, quindi entrambi prodotti di trasformazione.
Che le IGP occultino l’origine non è corretto. Semplicemente non necessariamente l’origine della materia prima concorre alla tipicità del prodotto. Pertanto il disciplinare spesso non riporta tale requisito. Questo non significa occultare (se questo è ciò a cui si riferiva). E’ il consumatore che non conoscendo il corretto significato di IGP gliene attribuisce uno improprio, facendo l’associazione automatica IGP = materia prima italiana.
Poi, in generale: se vogliamo coprire tutto il territorio italiano di allevamenti e coltivazioni va benissimo. Si tratta semplicemente di scegliere quali siano i settori strategici per il nostro paese. Bisognerebbe però farlo perlomeno valutandone i costi e i benefici. Senza voler sempre trovare la contrapposizione tra buoni-cattivi, agricoltori-industria.
L’esempio che si faceva poco sopra, in Sicilia dove prima c’era il grano ora ci sono pannelli fotovoltaici. Se rimettiamo il grano si tolgono i pannelli fotovoltaici. Bisogna semplicemente valutare cosa sia meglio e scegliere. Non si possono avere tutti e due, non c’è posto, fisicamente, per tutto (perchè poi, sistemato il grano duro tocca al frumento, agli olivi, alla carne bovina…)nel nostro paese. Basta prendere un mappamondo e fare un confronto con altri territori, che dal punto di vista agricolo sono avvantaggiati. Noi abbiamo il territorio che ci consente un’allevamento estensivo come in Argentina e Brasile?
Noi abbiamo un’estensione di territorio disponibile paragonabile all’Ucraina? al Canada?
Com’è la densità di popolazione in Italia rispetto a Romania, Polonia, Bulgaria, Argentina, Brasile?
la bresaola della valtellina prodotta con carne brasiliana quanto tempo credete che durerà dieci ,venti anni? Il mondo è più veloce di una volta.Chi fornisce la materia prima diventa indispensabile e avendo il coltello dalla parte del manico ,quando vuole ti compera,acquisisce il marchio abbassa il livello qualitativo secondo le sue necessità abituando il consumatore a nuove gradazioni di gusto,acquisisce il mercato e diventa normale che porti la lavorazione vicino al luogo di produzione della carne ; cosi svendiamo il nostro patrimonio agroalimentare .Rigamonti comperata dallaJBS (uno dei colossi mondiali della produzione di carne bovina con centinaia di cause per la deforestazione del’Amazzonia)quanto pensate che durerà .Personalmente deve essere garantito anche il consumatore che voi considerate un pò pirla che compera Italiano per comunque sostenere il sistema Italia,è un consumatore estremamente presente in molti paesi evoluti in Francia è considerato .
Questo non è vero. A meno di non cambiare il Disciplinare (che è approvato dall’UE), non sarà mai possibile che la fase che caratterizza l’IGP venga spostata dai luoghi previsti. Quindi non ci sarà mai una Bresaola della Valtellina IGP stagionata in Brasile.
Prodotti Italiani sinonimo di qualità??Ma Fortunatamente importiamo anche dall’estero!Avete sentito tutte le problematiche legate ai prodotti coltivati nel “triangolo della morte” in Campania?
Io mi occupo di gara d’appalto nella ristorazione collettiva e vi posso assicurare che è lo stesso Stato a diffondere queste stupide ideologie sul km 0 ed il Bio!provate a leggere i capitolati d’appalto e il GPP emesso dal Ministero dell’Ambiente
Interessante la discussione, ma c’e` anche un altro fattore che e` stato dimenticato, oltre alla non autosufficienza per problemi legati all’estensione del territorio e allo sfruttamento in altro modo, si deve considerare il fatto che non e` che si puo` produrre pasta tutto l’anno con il solo grano raccolto in estate, oppure produrre olio tutto l’anno con il raccolto dell’estate. Non si puo` conservare la materia prima per fare tutto il giro dell’anno fino al raccolto successivo.
Fermo restando il fatto che se il mercato mi chiede 100 ed io con il mio produco solo 10 o scelgo di fermarmi a 10 con il rischio che poi il mercato si rivolga ad altri oppure devo prendere le materie da altri. E se devo produrre la pasta a febbraio perche` non posso fermare la filiera non posso sperare che la materia prima si conservi dall’estate (o da quando si raccoglie il grano che adesso mi sfugge).
Fra articolo ed interventi ci siamo chiariti, tutti noi per lo più addetti ai lavori, sul fatto che al di là delle frodi, che vanno comunque seriamente controllate e colpite nel modo più drastico (chiusura permessi , distruzione merce e quant’altro) Coldiretti su tutti i mezzi di comunicazione continua a spargere disinformazione e stupidaggini dannose alla “salute mentale” ed alla fiducia dei consumatori. Allora , approfittando dell’occasione, IL FATTO ALIMENTARE si faccia promotore di una campagna di stampa, a partire dal Corriere della Sera fino alla TV, con queste argomentazioni e grafici dimostrativi inoppugnabili, per dimostrare che solo con l’onestà, l’onestà intellettuale, la messa in gioco delle capacità e delle eccellenze del nostro mondo agricolo ed industriale si possono vincere certe sfide alla pari con i nostri competitors, senza menzogne e sotterfugi: si racconti LA VERITA’ ai nostri concittadini che non possono ovviamente essere esperti di tutto, ma non devono ragionare, e poi civilmente andare a votare “di pancia”.
A volte si dimentica che le importazioni sono “forzate” se vogliamo essere pagati per l’esportazione di prodotti industriali. Nel commercio mondiale c’è ancora il baratto! L’Italia esporta macchinari e tecnologia e in cambio riceve prodotti agricoli, gli unici prodotti che certi Paesi hanno a disposizione. Si sacrifica l’agricoltura a favore dell’industria.
http://ogmbastabugie.blogspot.it/2013/12/le-importazioni-di-alimenti-sono-la.html
se si smettesse di importare le materie prime, quante aziende, che non riescono a reperirle in Italia per motivi di limitata produzione “italiana” dovrebbero chiudere, con conseguenziali licenziamenti.