Nella cucina tradizionale italiana, il ‘quinto quarto’ aveva un ruolo di rilievo e ogni regione vantava le sue specialità: fegato alla veneziana, trippa alla parmigiana, lampredotto fiorentino, ‘u pani c’a meusa palermitano. Piatti ricchi di storia e tradizione, ormai quasi del tutto scomparsi dalle tavole delle famiglie moderne. Le frattaglie, infatti, sono tra i cibi più rifiutati dagli italiani. Ma non sono affatto sparite: il loro uso si è semplicemente spostato. Secondo la celebre regola gattopardesca, tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. E così le frattaglie, un tempo onore e prelibatezza della cucina povera, sono rientrate nelle nostre case. Ma a mangiarle sono i nostri animali domestici.
Le frattaglie nel pet food
Animelle, cervello, cuore, fegato, lingua, milza, polmone e rognone: questi scarti della macellazione, che rappresentano tra il 10 e il 15% del peso totale dell’animale, non finiscono più nel piatto dell’uomo, ma nella ciotola dei nostri amici a quattro zampe. Si stima che in Italia vengano prodotte tra le 100mila e le 150mila tonnellate di frattaglie bovine all’anno. Una produzione immensa che ha trovato la sua nuova destinazione nel mercato del pet food, un termine che già nel nome svela la nostra crescente umanizzazione degli animali da compagnia. Il cibo per gli animali non è più feed – mangime, – ma food – un cibo vero e proprio.

L’uso industriale delle frattaglie non è un’invenzione recente. Già nell’antica Roma esisteva un “pane per cani”, e nel 1860, negli Stati Uniti, un imprenditore creò il primo biscotto per cani. Ma è negli anni ’30 che l’industria americana capì il potenziale di mercato nel trasformare i sottoprodotti della macellazione in cibo per cani e gatti in scatola. Un’intuizione geniale che risolveva il problema dello smaltimento di un quinto quarto poco gradito in America e lo trasformava in una fonte di profitto. Negli anni ’70, quando i primi alimenti industriali per animali arrivarono in Italia, la convenienza e la comodità di questo cibo rispetto alla preparazione casalinga conquistarono rapidamente il mercato.
Un settore in continua crescita
Da allora, il settore del pet food non ha smesso di crescere. Oggi in Italia si avvicina a un fatturato di cinque miliardi di euro, con una crescita annua del 4%. Questa espansione è legata a una profonda evoluzione sociale. Le famiglie italiane, soprattutto quelle mononucleari e composte da anziani, tendono sempre di più a considerare gli animali da compagnia come veri e propri membri della famiglia, spesso come sostituti di un figlio. Le statistiche lo confermano: circa il 40% delle famiglie italiane ha un cane o un gatto, mentre solo il 12% ha un bambino sotto i 14 anni.
A spingere questa tendenza c’è anche il fattore economico. L’alimentazione di un bambino può costare tra i 100 e i 200 euro al mese, mentre un cane di taglia media richiede circa 80-100 euro per una dieta casalinga, che scendono a soli 50 euro mensili con il pet food industriale. Un costo giornaliero tra 1 e 2 euro che rende questa scelta accessibile a gran parte della popolazione.
È un’evoluzione bizzarra e ironica: mentre noi abbiamo eliminato le frattaglie dalle nostre tavole, le abbiamo fatte rientrare in famiglia, ma attraverso i nostri animali. In un’epoca che predica filiera corta e sostenibilità, assistiamo a un fenomeno in cui tutto è cambiato perché, in fondo, tutto restasse come prima: le frattaglie, da cibo per i poveri, sono diventate il nutrimento per i nostri animali domestici, a dimostrazione di una società che si è evoluta nei suoi modelli di consumo e di affetto, ma non ha mai smesso di trovare una soluzione, anche inaspettata, per ogni sua esigenza.
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Professore Emerito dell’Università degli Studi di Parma e docente nella Facoltà di Medicina Veterinaria dal 1953 al 2002



Purtroppo è proprio come dite voi.
Le macellerie di gran parte dei supermercati non le ordinano più, perché poi le devono buttare, in quanto nessuno gliele compera. C’è solo qualche macelleria privata, soprattutto in zone rurali o extraurbane, che ne tiene piccole quantità su ordinazione.
Per contro, da alcuni anni sta prendendo piede l’offerta di frattaglie da parte di ristoranti gourmet o stellati, che le propongono non certo in versione tradizionale, ma cucinate con abbinamenti esotici (mango, ananas, datteri) o decisamente insoliti e controcorrente (gamberi, confetture..).
Fortunatamente resistono rare vecchie trattorie ed osterie che propongono ancora i piatti della nonna. Quando le persone anziane, che sono in cucina, lasceranno l’attività, resterà soltanto il ricordo di certe pietanze.
Porto in questa risposta la voce degli associati dell’Assotrippa di cui faccio parte per chiarire che, se il consumo di alcune frattaglie può essere in calo, altrettanto non succede per la Trippa ne tantomeno l’attenzione attorno a questo piatto. Sminuire come ha fatto Lei un prodotto tradizionale ed amato come il nostro riducendone il consumo al solo uso animale ci è sembrato non corretto sotto diversi punti di vista.
Ho letto attentamente l’articolo ed ho visto che la Trippa non è menzionata nei prodotti per il Petfood,
ma parlando genericamente di frattaglie in questo modo, un lettore disattento potrebbe pensare che il nostro sia diventato “solo” (termine che usa Lei) cibo per cani. Fortunatamente per noi, operatori del settore, la gente la vede in modo molto differente rispetto al suo. Cordiali saluti.