
I pesticidi rappresentano un autentico flagello per la biodiversità. E molti di essi contengono composti fluorurati classificabili come perfluoroalchili (PFAS), la cui presenza, negli ultimi anni, è andata aumentando. Sono due studi appena pubblicati a puntare il dito contro decine si prodotti di cui l’agricoltura moderna non riesce a fare a meno, ma che probabilmente dovrebbero essere utilizzati con molto più parsimonia, e adottando strategie finalizzate a mitigarne gli effetti tanto sull’ambiente quanto sulla salute umana.
Due parole incompatibili: pesticidi e biodiversità
Per quantificare quanto i pesticidi impattino su specie definite non target, cioè su animali e piante che non sarebbero il loro bersaglio, ma che i fitofarmaci, di solito poco selettivi, inevitabilmente coinvolgono , i ricercatori dello UK Centre for Ecology & Hydrology (UKCEH) e dell’Università inglese del Sussex hanno effettuato una metanalisi, cioè una revisione degli studi, appena pubblicata su Nature Communications. In essa hanno attentamente vagliato ben 1.700 ricerche che avevano come oggetto le conseguenze della diffusione di una o più tra 471 sostanze a effetto erbicida, fungicida o insetticida: un numero che, di per sé, fa capire quanto sia complesso studiare che cosa accada in natura quando arriva una di esse, dal momento ne sono sempre presenti a decine contemporaneamente. Il risultato è stato che questi pesticidi influenzano pesantemente non meno di 800 specie non target, e non in senso positivo. Un esempio? I neonicotenoidi danneggiano le rane.
Danni sui cicli riproduttivi, sull’orientamento, sulla capacità di predazione, sulla resistenza ai parassiti e numerosi altri effetti fanno sì che in generale queste sostanze siano tra i principali responsabili della perdita di biodiversità, dell’estinzione delle specie e della morìa di tantissimi esemplari osservata in tutto il mondo. Come se ne esce? Non pensando che improvvisamente l’agricoltura possa fare del tutto a meno dei fitofarmaci – affermano gli autori. Piuttosto, introducendo e sostenendo pratiche come l’agricoltura rigenerativa e quella integrata, e aiutando economicamente chi coltiva a usare sostanze meno dannose, come accade in Gran Bretagna, e come si sta cercando di fare in Europa, dove il 10% della terra è coltivata con fitofarmaci non di sintesi e quindi naturali. Inoltre, bisognerebbe sostenere in ogni modo la presenza di fiori selvatici, di scarabei e di altri predatori naturali, e incentivare la rotazione delle colture.
Gli PFAS irrorati
I pesticidi andrebbero limitati anche perché, come dimostra il secondo studio, uscito su Environmental Health Perspectives, contengono sempre più PFAS, che quindi entrano nei terreni, nelle acque e nella catena alimentare attraverso l’agricoltura. La ricerca, in questo caso, riguarda gli USA, ma rende ugualmente l’idea della situazione attuale.

In essa gli autori, ricercatori di vari enti tra i quali il Center for Biological Diversity, Public Employees for Environmental Responsibility (PEER), e l’Environmental Working Group, hanno riscontrato la presenza di 66 PFAS diversi tra i principi attivi di insetticidi legalmente riconosciuti, e quella di altri quattro nei cosiddetti inerti, sostanze inserite nei prodotti per scopi diversi che, però, evidentemente, tanto inerti non sono. Di fatto, il 14% di tutti gli ingredienti presenti nei pesticidi è costituito da PFAS e gli PFAS identificati sono presenti in decine di prodotti, anche se non tutti sono considerati pericolosi per la salute e per l’ambiente. E questo spiega perché non sia sufficiente la spiegazione più comune data per la presenza di PFAS nei terreni agricole e nelle acque circostanti, e cioè che gli PFAS derivino dai contenitori in plastica dei pesticidi.
PFAS a catena corta
La buona notizia è che, nella maggior parte dei casi, si tratta di PFAS a catena corta, considerati molto meno pericolosi di quelli a catena lunga. Uno di essi, per esempio, l’acido trifluoroacetico, secondo uno studio del 2023 non sarebbe dannoso. Ma resta il fatto che, come hanno sottolineato alcuni degli autori, una volta entrati nell’organismo vi restano virtualmente per sempre, e si tramandano anche alle generazioni successive.
Le quantità rendono l’idea: per esempio il bifenthrin, approvato anche in Europa, è presente in 247 prodotti. Alcuni di essi, poi, sono in declino, come il trifuralin, cancerogeno, vietato in Europa, di cui negli anni Novanta negli USA sono stati utilizzati 2,2 tonnellate; nel 2018 le tonnellate impiegate sono state circa la metà. Ma altri sono in aumento. Tra questi il fomesafen, approvato anche in Europa: si è passati da circa mezza tonnellata negli anni novanta alle attuali 2,7, distribuite soprattutto sulla soia.
Ciò che sta accadendo è chiaro, concludono gli autori: siamo passati dall’epoca dei composti clorurati come il DDT, di cui ancora oggi si vedono le conseguenze (nonostante sia stato vietato negli anni settanta) a quella dei composti fluorurati, sui cui effetti si sa ancora troppo poco. L’appello è dunque a sostenere le ricerche e, nel frattempo, a ridurre il più possibile l’utilizzo di pesticidi che contengano PFAS.
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Giornalista scientifica